La CONOSCENZA
da Edgar MORIN
Le sfide che caratterizzano la nostra epoca sono importanti, vitali. Lo stato dei saperi ereditato non è all’altezza del compito. La posta in gioco è caratterizzata dai nuovi problemi posti alla convivenza umana da un’interdipendenza planetaria irreversibile fra le economie, le politiche, le religioni, le conoscenze di tutte le società umane. Affinché tali sfide siano affrontabili è indispensabile una riforma dell’insegnamento e dell’educazione attraverso ogni settore formativo. La riforma dovrà vertere in particolare sull’organizzazione dei saperi, ormai disgiunti e frazionati, inadeguati ad affrontare problemi che richiedono approcci multidisciplinare. Occorre sviluppare, potenziare il pensiero complesso, come sostiene E. Morin.
Sempre MORIN, riflettendo sui termini e sulla Riforma dei saperi nei Licei di Francia ha in mente un insegnamento educativo che non trasmetta solo puro sapere ma una cultura che aiuti a comprendere la nostra condizione umana e ci aiuti a vivere.
Per Morin l’insegnamento se solo cognitivo è RESTRITTIVO, da solo non può bastare. L’educazione è troppo e niente. Mentre la didattica deve incoraggiare l’autodidattica, favorendo l’autonomia dello spirito.
La globalizzazione del sistema ha reso questo (il sistema) più complesso con l’interdipendenza delle componenti che lo costituiscono. Ciò comporta il limite delle superspecializzazioni che rendono i saprei disgiunti, frazionati, dunque incapaci di “pensare“ e di “cogliere” ciò che è “tessuto insieme” (problemi sempre più polidisciplinari, trasversali, multidisciplinare, trsnazionali, globali, planetari).
Oggi viviamo nella multidimensionalità della planetarietà.
Un’intelligenza incapace di comprendere e considerare il contesto e il complesso planetario rende incoscienti ed irresponsabili. Gli sviluppi delle scienze con le specializzazioni hanno portato cecità ed ignoranza. Ovvero il pensiero che taglia, che isola, permette sì agli specialisti, agli esperti, risultati eccellenti nei loro settori e di cooperare efficacemente in settori non complessi di conoscenza, specialmente in quelli che concernono il funzionamento di macchine artificiali; ma la logica a cui il pensiero obbedisce estende all’intera società e alle relazioni umane i vincoli e i meccanismi inumani della macchina artificiale. La visione deterministica, meccanicistica, quantitativa, formalista, ignora, occulta, dissolve tutto ciò che è soggettivo, affettivo, libero e creatore.
Occorre perciò usare la, servirsi della conoscenza pertinente (E. Morin), ossia di quella intelligenza capace di contestualizzare e globalizzare. Solo così la conoscenza progredisce, e non attraverso l’astrazione, la sofisticazione, la formalizzazione.
L’esempio viene dall’economia, scienza avanzata matematicamente, ma arretrata umanamente.
Lo scienziato Hayek (fisico) l’aveva sostenuto: “Nessuno che sia solo economista può essere un grande economista” … “Un economista, solo economista, diventa nocivo e può costituire un vero pericolo”.
Attualmente dietro la sfida del globale e del complesso si cela un’altra sfida: la sfida dell’espansione incontrollata del sapere.
L’accrescimento ininterrotto delle conoscenze edifica una gigantesca Torre di Babele, rumorosa di linguaggi discordanti. La torre ci domina poiché noi non siamo in grado di dominare i nostri saperi.
Eliot si chiedeva: “Dov’è la conoscenza che perdiamo nell’informazione?” La conoscenza è tale solo in quanto organizzazione (Dewey - Piaget), solo in quanto messa in relazione e in contesto delle informazioni. Queste ultime costituiscono, a loro volta, frammenti di saperi dispersi.
Sempre più la gigantesca proliferazione di conoscenza sfugge al controllo umano. Non solo. Nell’insieme tali conoscenze non riescono a coniugarsi per nutrire un pensiero che possa considerare la condizione umana in seno alla vita, sulla terra, nel mondo e che possa affrontare le grandi sfide del nostro tempo. Non riusciamo ad integrare le conoscenze per indirizzare le nostre esistenze.
Ancora Eliot si chiede: “Dov’è la saggezza che perdiamo nella conoscenza?” Nel Titolo Generale i Proverbi di Salomone recitano: “Gli stolti disprezzano l’istruzione e la sapienza”.
Un limite della cultura attuale è costituito dalla separatezza, dallo iato esistente fra la cultura umanistica, considerata generica, di ornamento, di lusso estetico, e la cultura scientifica, che compie straordinarie scoperte, formula geniali teorie, ma non ancora formula una riflessione sul destino umano, sul divenire della scienza stessa. Oggi esiste una terza cultura, quella delle Scienze Sociali capace di costituire il ponte fra le altre due e di coniugarle.
L’uomo del post-moderno è chiamato a grandi sfide soprattutto con lo sviluppo delle attività economiche, politiche, sociali, con lo sviluppo del sistema neuro-cerebrale artificiale, ovvero informatico, che è entrato in simbiosi con tutte le nostre attività quotidiane.
Ne consegue che l’informazione, attualmente, è la materia prima che la conoscenza deve padroneggiare ed integrare. Ma la conoscenza deve essere costantemente rivisitata dal pensiero. Il pensiero, oggi più che mai, è il capitale più prezioso per l’individuo e per la società. Nella civiltà della complessità se non si ha la percezione del globale, non si dà neppure senso di responsabilità alla dimensione di solidarietà. Così viene meno anche la democrazia. Infatti inizia ad essere percepito in modo chiaro ed inconfutabile un crescente deficit democratico dovuto all’appropriazione da parte di esperti, specialisti, tecnici, di un numero crescente di problemi vitali.
Il sapere è divenuto sempre più esoterico (ovvero accessibile solo a specialisti) e anonimo (quantitativo e formalizzato).
Più la politica diventa tecnica, più la democrazia diminuisce. Più aumenta il processo di sviluppo tecnico-scientifico cieco, che sfugge alla volontà degli stessi scienziati, più regredisce la democrazia. Occorre, dunque, recuperare una democrazia cognitiva. Come Edith Cresson sostiene in “Libro Bianco”, viviamo nell’epoca del “navigare a vista”, dell’incertezza. Il XX sec. ha contribuito ad individuare la conoscenza dei limiti della conoscenza e dunque della scienza. Per imparare ad affrontare l’incertezza occorre far convergere più insegnamenti, mobilitare più scienze e discipline. La condizione umana è segnata da due grandi incertezze: l’incertezza cognitiva e l’incertezza storica. Tre sono i principi d’incertezza nella conoscenza.
INCERTEZZA COGNITIVA 1. Il primo è cerebrale, ovvero la conoscenza non è mai un riflesso del reale, ma sempre traduzione e ricostruzione, cioè comporta rischi d’errore; 2. il secondo è fisico: la conoscenza dei fatti è sempre debitrice dell’interpretazione; 3. il terzo è epistemologico: deriva dalla crisi dei fondamenti di certezza nella filosofia (a partire da Nitzsche) e poi della scienza (a partire da Bachelard e Popper), conoscere e pensare non è arrivare ad una verità assolutamente certa, è dialogare con l’incertezza. Tutto ciò che conosciamo “hic et nunc” è passibile di superamenti.
INCERTEZZA STORICA L’incertezza storica è legata al carattere intrinsecamente caotico della storia umana, la cui avventura iniziata più di diecimila anni fa è stata segnata da creazioni favolose e da distruzioni irrimediabili. Non resta niente delle grandi civiltà del passato, dei grandi imperi, neppure di quello romano. Sorprendenti regressioni di civiltà e di economie hanno fatto seguito a temporanei progressi. Il nostro avvenire non è teleguidato dal progresso storico. Questa è la grande rivelazione cui si è giunti alla fine del XX sec.. Il crollo del progresso garantito, la crisi del futuro, i fallimenti della previsione futurologia, gli innumerevoli scacchi della previsione economica hanno introdotto ovunque il tarlo dell’incertezza. Tutti gli eventi del secolo scorso, dalla prima guerra mondiale alla resistenza di mosca e di Stalingrado erano stati previsti. Imprevisti invece sono stati dal 1989 la caduta del muro di Berlino, il collasso dell’impero sovietico e la guerra di Jugoslavia. Oggi nessuno può prevedere il domani. La conoscenza storica ci deve servire non solo a riconoscere i caratteri nello stesso tempo determinati e aleatori del destino umano, ma anche ad aprirci all’incertezza del futuro. Occorre prepararsi all’incertezza, sforzarsi di pensare bene, rendersi capaci di elaborare ed usare strategie, fare, infine, con tutta coscienza delle nostre scommesse.
Il PENSARE BENE
Sforzarsi di PENSARE BENE significa praticare un pensiero che cerchi senza sosta di contestualizzare e globalizzare le informazioni e le conoscenze, che senza sosta si applichi a lottare contro l’errore e la menzogna a se stesso; ma significa anche essere coscienti dell’ecologia dell’azione.
Per ecologia dell’azione si intende ogni azione che, una volta intrapresa, entra in un gioco di interazioni e retroazioni, in seno all’ambiente in cui si effettua, che può distoglierla dai suoi fini e anche sfociare in un risultato contrario a quello previsto. Es.: nel 1935-36 una spinta rivoluzionaria in Spagna ha dato luogo ad un golpe reazionario etc…
La STRATEGIA
Le conseguenze ultime dell’azione sono imprevedibili. Importante nell’azione è la strategia che, come il programma, si stabilisce in vista di un obiettivo, ma che, differentemente dal programma, che ha bisogno di condizioni esterne stabili, riunisce le informazioni, le verifica, modifica le sue azioni in funzione di informazioni raccolte e dei casi strada facendo.
Fino ad oggi tutto il nostro insegnamento ha investito sul programma, mentre la vita ci richiede strategie e, se possibile, anche arte e seridipità*.
La SCOMMESSA
La strategia porta con sé la consapevolezza dell’incertezza che dovrà affrontare e perciò comporta una scommessa. Questa dovrà essere fatta con coscienza piena, altrimenti è una rovina.
La scommessa è l’integrazione dell’incertezza nella fede e nella speranza. Kant sosteneva che “i lumi dipendono dall’educazione e l’educazione dai lumi”
Daumal a sua volta affermava “so tutto ma non comprendo nulla”.
Il secondo e terzo principio kantiano tratti dal “Discorso sul metodo” comportano il concetto di separazione e riduzione di qualsiasi oggetto di conoscenza per meglio conoscerlo.
Galilei sosteneva che i fenomeni devono essere descritti solo attraverso quantità misurabili. Ma né l’esistente, né il soggetto che conosce, possono essere matematizzati o formalizzati.
Heidegger combatte “l’essenza divoratrice del calcolo” che, a suo avviso, “frantuma gli esseri”.
Nella conoscenza scientifica del più recente passato ha regnato il principio della separazione e quello della riduzione, come se la conoscenza del tutto fosse la conoscenza additiva dei suoi elementi. Oggi, come indica Pascal, si tende ad ammettere sempre di più che la conoscenza del tutto dipende dalla conoscenza delle parti, così come la conoscenza delle parti dipende dalla conoscenza del tutto. C’è dunque bisogno di un pensiero complesso, piuttosto che di un pensiero riduttivo e/o disgiuntivo. Complesso deriva da complexus, ovvero ciò che è tessuto insieme.
La riforma del pensiero corrente affonda le sue radici nella cultura umanistica, nella letteratura, nella filosofia e si sta delineando anche nelle scienze. Essa nasce dalle due rivoluzioni scientifiche del XX sec..
La prima rivoluzione è quella della fisica quantistica che ha causato (comportato) la fine, il crollo dell’universo laplaciano, del dogma deterministico, il collasso di ogni idea di unità semplice che sia alla base dell’universo, l’introduzione dell’incertezza nella conoscenza scientifica.
La seconda, che si realizza con la costituzione di grandi riaccorpamenti scientifici, comporta la presa in considerazione degli insiemi organizzati, dei sistemi e la fine della teoria riduzionistica del XIX sec.. Si delinea così una rinascita delle entità globali, come il cosmo, la natura, l’uomo, che erano state “affettate come salami, disintegrate” (E. Morin), mentre comportavano al loro interno una “complessità insostenibile” per il pensiero disgiuntivo.
Le impostazioni del pensiero che ci hanno preceduto sono ancora evidenti, ma è pur vero che già si sono formati i principi di intelligibilità del complesso a partire dalla cibernetica, dalla teoria dei
sistemi, dalla teoria dell’informazione e si è elaborata una concezione dell’autorganizzazione atta a concepire l’autonomia, cosa impossibile per la scienza classica.
La razionalità e la scientificità hanno cominciato ad essere ridefinite e complessificate a partire dai lavori di Bachelard, Popper, Kuhn, Hulton, Lakatos, Feyerabend. I legami fra le due culture, scientifica ed umanistica, hanno iniziato a rafforzarsi. Pensatori, scienziati, hanno occupato il posto vuoto lasciato da una filosofia ripiegata su se stessa che ha smesso di riflettere sulle conoscenze offerte dalle scienze. Essi sono J. Monod, F. Jacob, Ilya Prigogine, Henry Atlan, Hubert Reeves, Michel Cassé, Basarab Nicolescu, Jean Marc Levy-Leblond. Grazie a loro sta emergendo una (loro) cultura generale, più ricca di quella antica ed atta a trattare i problemi fondamentali dell’umanità contemporanea.
Durante il XIX sec., mentre la scienza ignorava l’individuale, il singolare, il concreto, lo storico, vi era una letteratura, soprattutto il romanzo, quello di Balzac, di Dostoevskij e di Proust, che rivelava la complessità umana. La letteratura si sforzava di raccontare, mostrare, rivelare la complessità umana celata sotto semplici apparenze; la scienza, le scienze del tempo, dimostravano di dissolvere la realtà, la complessità delle apparenze per rivelarne le semplicità nascoste. Ma ancor prima del XIX sec. tutti i capolavori della letteratura sono stati capolavori della complessità. Si pensi alla rivelazione della condizione umana nella singolarità di un individuo (Montagne), alla contaminazione del reale con l’immaginario (Don Chisciotte di Cervantes); al gioco delle passioni umane (Shakespeare). Nella letteratura di sempre noi riscontriamo un insegnamento cognitivo attraverso la metafora, la quale viene celebrata sia da Morin che da Gardner. Lo stesso Cartesio affermava che: “Ci si potrà sorprendere che i pensieri profondi si trovino negli scritti dei poeti e non in quelli dei filosofi. La ragione è che i poeti si servono dell’entusiasmo e sfruttano la forza dell’immagine” (Cartesio, Cogitationes privatae). Ma ancor meglio esprime Antoine de Espery nel “Il piccolo principe”: “Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.
Non a caso gli antichi greci facevano risiedere l’intelligenza nel cuore.
Oggi la scienza sta andando oltre i suoi confini. Vi sono studi sulla mete e sul cervello finalizzati ad individuare se sono entità distinte: la mente, così sembra, sopravviverebbe al cervello non più funzionante.
Spiegare e comprendere sono processi differenti. Spiegare è considerare il proprio oggetto di conoscenza soltanto come oggetto, impiegando tutti i mezzi di spiegazione oggettivi che determinano le forme, la qualità, la quantità, la deterministica degli oggetti. Ma se tale spiegazione è necessaria alla comprensione intellettuale e obiettiva, è insufficiente per la comprensione umana. C’è una conoscenza che è comprensiva e che si fonda sulla comunicazione, sull’empatia e persino sulla simpatia inter-soggettiva. Così io comprendo le lacrime, il sorriso, le risa, la paura se mi immedesimo, se mi identifico, se mi proietto nel soggetto che prova questi sentimenti. Non andrò dunque a misurare la salinità delle sue lacrime, ma mi identificherò in lui, rievocando situazioni, episodi (ricordi) che mi possono avvicinare alla sua esperienza dolorosa o gioiosa.
La comprensione, sempre inter-soggettiva, richiede apertura e soggettività.
La riforma di pensiero deve incidere sulla riforma dell’insegnamento. Il mondo tecnico-scientifico concepisce la letteratura, la cultura umanistica come ornamento o lusso estetico, mentre essa favorisce quello che Simon definiva il “problem solving”, ossia l’intelligenza generale che la mente umana applica a casi particolari. La riforma di pensiero consentirebbe il pieno impiego dell’intelligenza per rispondere alle sfide correnti e permetterebbe il legame fra le due culture finora disgiunte ed antagoniste. Si tratta di una riforma non programmatica, ma paradigmatica, che concerne la nostra attitudine ad organizzare la conoscenza.
La riforma di pensiero, abbiamo già affermato, deve avere come esito la riforma dell’insegnamento e viceversa. Il rapporto fra essi è lo stesso che vi è fra società e scuola, ovvero è un rapporto circolare, ricorsivo: la scuola produce la società che, a sua volta, produce la scuola e viceversa (Kant: “i lumi dipendono dall’educazione e l’educazione dai lumi”)
Come intervenire dunque in tale rapporto e superare la contraddizione sita in esso? Intervenendo in uno dei due soggetti. Solo così si assisterà ad una modificazione. La riforma inizialmente sarà marginale e periferica. L’iniziativa partirà da una minoranza di persone, all’inizio incompresa e perseguitata. Ma poi ci sarà la disseminazione delle idee, che per diffondersi diverranno forza efficace.
Allora si porrà impellente la domanda posta da Karl Marx in una delle sue tesi su Feuerbach “Chi educherà gli educatori?” Saranno pochi coloro che, animati dalla fede nella necessità di riformare il pensiero, avvieranno la rigenerazione dell’insegnamento. Saranno coloro che hanno già in sé il senso della loro missione (mission).
Freud sosteneva che ci sono tre funzioni impossibili per definizione: educare, governare, psicanalizzare.
Morin sostiene che queste sono molto più che funzioni o professioni. Infatti il carattere funzionale dell’insegnamento riduce l’insegnante a semplice impiegato, mentre il carattere professionale porta a ridurre l’insegnante ad esperto. L’insegnamento, invece, deve andare oltre la funzione, oltre la specializzazione, oltre la professione. Deve ridiventare compito di salute pubblica: missione! Una missione di trasmissione. La trasmissione richiede certamente competenza, ma richiede anche, oltre ad una tecnica, un’arte. Nessun manuale potrà mai insegnare ad insegnare, occorre ciò che Platone chiamava “eros”, che è allo stesso tempo amore, piacere, desiderio. Piacere di trasmettere amore per la conoscenza e amore per gli allievi. L’eros permette di tener a bada il piacere legato al potere, a vantaggio del piacere legato al dono. Solo così si potrà suscitare il piacere e l’amore dell’allievo e dello studente. Là dove non c’è amore, non ci sono che problemi di carriera, di retribuzione, di noia per l’insegnamento. La missione presuppone anche la fede; in questo caso la fede nella cultura e nella mente umana.
I tratti essenziali della missione dell’insegnante possono essere così riassunti:
stimolare una cultura che consenta di distinguere, contestualizzare, globalizzare, affrontare problemi multidimensionali, globali e fondamentali, planetari;
preparare le menti a rispondere alle crescenti sfide poste alla conoscenza umana dalla complessità dei problemi;
favorire un’intelligenza strategica e la scommessa per un mondo migliore;
far conoscere la storia incerta, aleatoria dell’universo, della vita, dell’uomo;
educare alla comprensione umana fra vicini e lontani;
insegnare l’affiliazione (all’Italia, all’Europa, alla sua storia, alla sua cultura, alla cittadinanza repubblicana;
insegnare la cittadinanza terrestre, insegnando l’umanità nella sua unità antropologica e nelle sue diversità individuali e culturali, così come nella sua comunità di destino caratteristico dell’era planetaria, in cui tutti gli uomini sono sottoposti a confronto con gli stessi problemi vitali e mortali.
L’organizzazione disciplinare, istituita nel XIX sec., in particolare con la formazione delle Università moderne, si è poi sviluppata nel XX sec. con lo sviluppo della ricerca scientifica. La disciplina non ha solo a che fare con la conoscenza e con la riflessione interna su se stessa, ma anche con una conoscenza esterna. L’istituzione della disciplina comporta il rischio dell’iper-specializzazione del ricercatore e della “codificazione” dell’oggetto studiato. Mentre l’apertura, l’extradisciplinare, il multidisciplinare è necessario più che mai in un’epoca quale la nostra.
*seridipità = arte di trasformare dettagli apparentemente insignificanti in indizi che consentono di ricostruire la storia
Creazione 6/02/2006
da Edgar MORIN
Le sfide che caratterizzano la nostra epoca sono importanti, vitali. Lo stato dei saperi ereditato non è all’altezza del compito. La posta in gioco è caratterizzata dai nuovi problemi posti alla convivenza umana da un’interdipendenza planetaria irreversibile fra le economie, le politiche, le religioni, le conoscenze di tutte le società umane. Affinché tali sfide siano affrontabili è indispensabile una riforma dell’insegnamento e dell’educazione attraverso ogni settore formativo. La riforma dovrà vertere in particolare sull’organizzazione dei saperi, ormai disgiunti e frazionati, inadeguati ad affrontare problemi che richiedono approcci multidisciplinare. Occorre sviluppare, potenziare il pensiero complesso, come sostiene E. Morin.
Sempre MORIN, riflettendo sui termini e sulla Riforma dei saperi nei Licei di Francia ha in mente un insegnamento educativo che non trasmetta solo puro sapere ma una cultura che aiuti a comprendere la nostra condizione umana e ci aiuti a vivere.
Per Morin l’insegnamento se solo cognitivo è RESTRITTIVO, da solo non può bastare. L’educazione è troppo e niente. Mentre la didattica deve incoraggiare l’autodidattica, favorendo l’autonomia dello spirito.
La globalizzazione del sistema ha reso questo (il sistema) più complesso con l’interdipendenza delle componenti che lo costituiscono. Ciò comporta il limite delle superspecializzazioni che rendono i saprei disgiunti, frazionati, dunque incapaci di “pensare“ e di “cogliere” ciò che è “tessuto insieme” (problemi sempre più polidisciplinari, trasversali, multidisciplinare, trsnazionali, globali, planetari).
Oggi viviamo nella multidimensionalità della planetarietà.
Un’intelligenza incapace di comprendere e considerare il contesto e il complesso planetario rende incoscienti ed irresponsabili. Gli sviluppi delle scienze con le specializzazioni hanno portato cecità ed ignoranza. Ovvero il pensiero che taglia, che isola, permette sì agli specialisti, agli esperti, risultati eccellenti nei loro settori e di cooperare efficacemente in settori non complessi di conoscenza, specialmente in quelli che concernono il funzionamento di macchine artificiali; ma la logica a cui il pensiero obbedisce estende all’intera società e alle relazioni umane i vincoli e i meccanismi inumani della macchina artificiale. La visione deterministica, meccanicistica, quantitativa, formalista, ignora, occulta, dissolve tutto ciò che è soggettivo, affettivo, libero e creatore.
Occorre perciò usare la, servirsi della conoscenza pertinente (E. Morin), ossia di quella intelligenza capace di contestualizzare e globalizzare. Solo così la conoscenza progredisce, e non attraverso l’astrazione, la sofisticazione, la formalizzazione.
L’esempio viene dall’economia, scienza avanzata matematicamente, ma arretrata umanamente.
Lo scienziato Hayek (fisico) l’aveva sostenuto: “Nessuno che sia solo economista può essere un grande economista” … “Un economista, solo economista, diventa nocivo e può costituire un vero pericolo”.
Attualmente dietro la sfida del globale e del complesso si cela un’altra sfida: la sfida dell’espansione incontrollata del sapere.
L’accrescimento ininterrotto delle conoscenze edifica una gigantesca Torre di Babele, rumorosa di linguaggi discordanti. La torre ci domina poiché noi non siamo in grado di dominare i nostri saperi.
Eliot si chiedeva: “Dov’è la conoscenza che perdiamo nell’informazione?” La conoscenza è tale solo in quanto organizzazione (Dewey - Piaget), solo in quanto messa in relazione e in contesto delle informazioni. Queste ultime costituiscono, a loro volta, frammenti di saperi dispersi.
Sempre più la gigantesca proliferazione di conoscenza sfugge al controllo umano. Non solo. Nell’insieme tali conoscenze non riescono a coniugarsi per nutrire un pensiero che possa considerare la condizione umana in seno alla vita, sulla terra, nel mondo e che possa affrontare le grandi sfide del nostro tempo. Non riusciamo ad integrare le conoscenze per indirizzare le nostre esistenze.
Ancora Eliot si chiede: “Dov’è la saggezza che perdiamo nella conoscenza?” Nel Titolo Generale i Proverbi di Salomone recitano: “Gli stolti disprezzano l’istruzione e la sapienza”.
Un limite della cultura attuale è costituito dalla separatezza, dallo iato esistente fra la cultura umanistica, considerata generica, di ornamento, di lusso estetico, e la cultura scientifica, che compie straordinarie scoperte, formula geniali teorie, ma non ancora formula una riflessione sul destino umano, sul divenire della scienza stessa. Oggi esiste una terza cultura, quella delle Scienze Sociali capace di costituire il ponte fra le altre due e di coniugarle.
L’uomo del post-moderno è chiamato a grandi sfide soprattutto con lo sviluppo delle attività economiche, politiche, sociali, con lo sviluppo del sistema neuro-cerebrale artificiale, ovvero informatico, che è entrato in simbiosi con tutte le nostre attività quotidiane.
Ne consegue che l’informazione, attualmente, è la materia prima che la conoscenza deve padroneggiare ed integrare. Ma la conoscenza deve essere costantemente rivisitata dal pensiero. Il pensiero, oggi più che mai, è il capitale più prezioso per l’individuo e per la società. Nella civiltà della complessità se non si ha la percezione del globale, non si dà neppure senso di responsabilità alla dimensione di solidarietà. Così viene meno anche la democrazia. Infatti inizia ad essere percepito in modo chiaro ed inconfutabile un crescente deficit democratico dovuto all’appropriazione da parte di esperti, specialisti, tecnici, di un numero crescente di problemi vitali.
Il sapere è divenuto sempre più esoterico (ovvero accessibile solo a specialisti) e anonimo (quantitativo e formalizzato).
Più la politica diventa tecnica, più la democrazia diminuisce. Più aumenta il processo di sviluppo tecnico-scientifico cieco, che sfugge alla volontà degli stessi scienziati, più regredisce la democrazia. Occorre, dunque, recuperare una democrazia cognitiva. Come Edith Cresson sostiene in “Libro Bianco”, viviamo nell’epoca del “navigare a vista”, dell’incertezza. Il XX sec. ha contribuito ad individuare la conoscenza dei limiti della conoscenza e dunque della scienza. Per imparare ad affrontare l’incertezza occorre far convergere più insegnamenti, mobilitare più scienze e discipline. La condizione umana è segnata da due grandi incertezze: l’incertezza cognitiva e l’incertezza storica. Tre sono i principi d’incertezza nella conoscenza.
INCERTEZZA COGNITIVA 1. Il primo è cerebrale, ovvero la conoscenza non è mai un riflesso del reale, ma sempre traduzione e ricostruzione, cioè comporta rischi d’errore; 2. il secondo è fisico: la conoscenza dei fatti è sempre debitrice dell’interpretazione; 3. il terzo è epistemologico: deriva dalla crisi dei fondamenti di certezza nella filosofia (a partire da Nitzsche) e poi della scienza (a partire da Bachelard e Popper), conoscere e pensare non è arrivare ad una verità assolutamente certa, è dialogare con l’incertezza. Tutto ciò che conosciamo “hic et nunc” è passibile di superamenti.
INCERTEZZA STORICA L’incertezza storica è legata al carattere intrinsecamente caotico della storia umana, la cui avventura iniziata più di diecimila anni fa è stata segnata da creazioni favolose e da distruzioni irrimediabili. Non resta niente delle grandi civiltà del passato, dei grandi imperi, neppure di quello romano. Sorprendenti regressioni di civiltà e di economie hanno fatto seguito a temporanei progressi. Il nostro avvenire non è teleguidato dal progresso storico. Questa è la grande rivelazione cui si è giunti alla fine del XX sec.. Il crollo del progresso garantito, la crisi del futuro, i fallimenti della previsione futurologia, gli innumerevoli scacchi della previsione economica hanno introdotto ovunque il tarlo dell’incertezza. Tutti gli eventi del secolo scorso, dalla prima guerra mondiale alla resistenza di mosca e di Stalingrado erano stati previsti. Imprevisti invece sono stati dal 1989 la caduta del muro di Berlino, il collasso dell’impero sovietico e la guerra di Jugoslavia. Oggi nessuno può prevedere il domani. La conoscenza storica ci deve servire non solo a riconoscere i caratteri nello stesso tempo determinati e aleatori del destino umano, ma anche ad aprirci all’incertezza del futuro. Occorre prepararsi all’incertezza, sforzarsi di pensare bene, rendersi capaci di elaborare ed usare strategie, fare, infine, con tutta coscienza delle nostre scommesse.
Il PENSARE BENE
Sforzarsi di PENSARE BENE significa praticare un pensiero che cerchi senza sosta di contestualizzare e globalizzare le informazioni e le conoscenze, che senza sosta si applichi a lottare contro l’errore e la menzogna a se stesso; ma significa anche essere coscienti dell’ecologia dell’azione.
Per ecologia dell’azione si intende ogni azione che, una volta intrapresa, entra in un gioco di interazioni e retroazioni, in seno all’ambiente in cui si effettua, che può distoglierla dai suoi fini e anche sfociare in un risultato contrario a quello previsto. Es.: nel 1935-36 una spinta rivoluzionaria in Spagna ha dato luogo ad un golpe reazionario etc…
La STRATEGIA
Le conseguenze ultime dell’azione sono imprevedibili. Importante nell’azione è la strategia che, come il programma, si stabilisce in vista di un obiettivo, ma che, differentemente dal programma, che ha bisogno di condizioni esterne stabili, riunisce le informazioni, le verifica, modifica le sue azioni in funzione di informazioni raccolte e dei casi strada facendo.
Fino ad oggi tutto il nostro insegnamento ha investito sul programma, mentre la vita ci richiede strategie e, se possibile, anche arte e seridipità*.
La SCOMMESSA
La strategia porta con sé la consapevolezza dell’incertezza che dovrà affrontare e perciò comporta una scommessa. Questa dovrà essere fatta con coscienza piena, altrimenti è una rovina.
La scommessa è l’integrazione dell’incertezza nella fede e nella speranza. Kant sosteneva che “i lumi dipendono dall’educazione e l’educazione dai lumi”
Daumal a sua volta affermava “so tutto ma non comprendo nulla”.
Il secondo e terzo principio kantiano tratti dal “Discorso sul metodo” comportano il concetto di separazione e riduzione di qualsiasi oggetto di conoscenza per meglio conoscerlo.
Galilei sosteneva che i fenomeni devono essere descritti solo attraverso quantità misurabili. Ma né l’esistente, né il soggetto che conosce, possono essere matematizzati o formalizzati.
Heidegger combatte “l’essenza divoratrice del calcolo” che, a suo avviso, “frantuma gli esseri”.
Nella conoscenza scientifica del più recente passato ha regnato il principio della separazione e quello della riduzione, come se la conoscenza del tutto fosse la conoscenza additiva dei suoi elementi. Oggi, come indica Pascal, si tende ad ammettere sempre di più che la conoscenza del tutto dipende dalla conoscenza delle parti, così come la conoscenza delle parti dipende dalla conoscenza del tutto. C’è dunque bisogno di un pensiero complesso, piuttosto che di un pensiero riduttivo e/o disgiuntivo. Complesso deriva da complexus, ovvero ciò che è tessuto insieme.
La riforma del pensiero corrente affonda le sue radici nella cultura umanistica, nella letteratura, nella filosofia e si sta delineando anche nelle scienze. Essa nasce dalle due rivoluzioni scientifiche del XX sec..
La prima rivoluzione è quella della fisica quantistica che ha causato (comportato) la fine, il crollo dell’universo laplaciano, del dogma deterministico, il collasso di ogni idea di unità semplice che sia alla base dell’universo, l’introduzione dell’incertezza nella conoscenza scientifica.
La seconda, che si realizza con la costituzione di grandi riaccorpamenti scientifici, comporta la presa in considerazione degli insiemi organizzati, dei sistemi e la fine della teoria riduzionistica del XIX sec.. Si delinea così una rinascita delle entità globali, come il cosmo, la natura, l’uomo, che erano state “affettate come salami, disintegrate” (E. Morin), mentre comportavano al loro interno una “complessità insostenibile” per il pensiero disgiuntivo.
Le impostazioni del pensiero che ci hanno preceduto sono ancora evidenti, ma è pur vero che già si sono formati i principi di intelligibilità del complesso a partire dalla cibernetica, dalla teoria dei
sistemi, dalla teoria dell’informazione e si è elaborata una concezione dell’autorganizzazione atta a concepire l’autonomia, cosa impossibile per la scienza classica.
La razionalità e la scientificità hanno cominciato ad essere ridefinite e complessificate a partire dai lavori di Bachelard, Popper, Kuhn, Hulton, Lakatos, Feyerabend. I legami fra le due culture, scientifica ed umanistica, hanno iniziato a rafforzarsi. Pensatori, scienziati, hanno occupato il posto vuoto lasciato da una filosofia ripiegata su se stessa che ha smesso di riflettere sulle conoscenze offerte dalle scienze. Essi sono J. Monod, F. Jacob, Ilya Prigogine, Henry Atlan, Hubert Reeves, Michel Cassé, Basarab Nicolescu, Jean Marc Levy-Leblond. Grazie a loro sta emergendo una (loro) cultura generale, più ricca di quella antica ed atta a trattare i problemi fondamentali dell’umanità contemporanea.
Durante il XIX sec., mentre la scienza ignorava l’individuale, il singolare, il concreto, lo storico, vi era una letteratura, soprattutto il romanzo, quello di Balzac, di Dostoevskij e di Proust, che rivelava la complessità umana. La letteratura si sforzava di raccontare, mostrare, rivelare la complessità umana celata sotto semplici apparenze; la scienza, le scienze del tempo, dimostravano di dissolvere la realtà, la complessità delle apparenze per rivelarne le semplicità nascoste. Ma ancor prima del XIX sec. tutti i capolavori della letteratura sono stati capolavori della complessità. Si pensi alla rivelazione della condizione umana nella singolarità di un individuo (Montagne), alla contaminazione del reale con l’immaginario (Don Chisciotte di Cervantes); al gioco delle passioni umane (Shakespeare). Nella letteratura di sempre noi riscontriamo un insegnamento cognitivo attraverso la metafora, la quale viene celebrata sia da Morin che da Gardner. Lo stesso Cartesio affermava che: “Ci si potrà sorprendere che i pensieri profondi si trovino negli scritti dei poeti e non in quelli dei filosofi. La ragione è che i poeti si servono dell’entusiasmo e sfruttano la forza dell’immagine” (Cartesio, Cogitationes privatae). Ma ancor meglio esprime Antoine de Espery nel “Il piccolo principe”: “Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.
Non a caso gli antichi greci facevano risiedere l’intelligenza nel cuore.
Oggi la scienza sta andando oltre i suoi confini. Vi sono studi sulla mete e sul cervello finalizzati ad individuare se sono entità distinte: la mente, così sembra, sopravviverebbe al cervello non più funzionante.
Spiegare e comprendere sono processi differenti. Spiegare è considerare il proprio oggetto di conoscenza soltanto come oggetto, impiegando tutti i mezzi di spiegazione oggettivi che determinano le forme, la qualità, la quantità, la deterministica degli oggetti. Ma se tale spiegazione è necessaria alla comprensione intellettuale e obiettiva, è insufficiente per la comprensione umana. C’è una conoscenza che è comprensiva e che si fonda sulla comunicazione, sull’empatia e persino sulla simpatia inter-soggettiva. Così io comprendo le lacrime, il sorriso, le risa, la paura se mi immedesimo, se mi identifico, se mi proietto nel soggetto che prova questi sentimenti. Non andrò dunque a misurare la salinità delle sue lacrime, ma mi identificherò in lui, rievocando situazioni, episodi (ricordi) che mi possono avvicinare alla sua esperienza dolorosa o gioiosa.
La comprensione, sempre inter-soggettiva, richiede apertura e soggettività.
La riforma di pensiero deve incidere sulla riforma dell’insegnamento. Il mondo tecnico-scientifico concepisce la letteratura, la cultura umanistica come ornamento o lusso estetico, mentre essa favorisce quello che Simon definiva il “problem solving”, ossia l’intelligenza generale che la mente umana applica a casi particolari. La riforma di pensiero consentirebbe il pieno impiego dell’intelligenza per rispondere alle sfide correnti e permetterebbe il legame fra le due culture finora disgiunte ed antagoniste. Si tratta di una riforma non programmatica, ma paradigmatica, che concerne la nostra attitudine ad organizzare la conoscenza.
La riforma di pensiero, abbiamo già affermato, deve avere come esito la riforma dell’insegnamento e viceversa. Il rapporto fra essi è lo stesso che vi è fra società e scuola, ovvero è un rapporto circolare, ricorsivo: la scuola produce la società che, a sua volta, produce la scuola e viceversa (Kant: “i lumi dipendono dall’educazione e l’educazione dai lumi”)
Come intervenire dunque in tale rapporto e superare la contraddizione sita in esso? Intervenendo in uno dei due soggetti. Solo così si assisterà ad una modificazione. La riforma inizialmente sarà marginale e periferica. L’iniziativa partirà da una minoranza di persone, all’inizio incompresa e perseguitata. Ma poi ci sarà la disseminazione delle idee, che per diffondersi diverranno forza efficace.
Allora si porrà impellente la domanda posta da Karl Marx in una delle sue tesi su Feuerbach “Chi educherà gli educatori?” Saranno pochi coloro che, animati dalla fede nella necessità di riformare il pensiero, avvieranno la rigenerazione dell’insegnamento. Saranno coloro che hanno già in sé il senso della loro missione (mission).
Freud sosteneva che ci sono tre funzioni impossibili per definizione: educare, governare, psicanalizzare.
Morin sostiene che queste sono molto più che funzioni o professioni. Infatti il carattere funzionale dell’insegnamento riduce l’insegnante a semplice impiegato, mentre il carattere professionale porta a ridurre l’insegnante ad esperto. L’insegnamento, invece, deve andare oltre la funzione, oltre la specializzazione, oltre la professione. Deve ridiventare compito di salute pubblica: missione! Una missione di trasmissione. La trasmissione richiede certamente competenza, ma richiede anche, oltre ad una tecnica, un’arte. Nessun manuale potrà mai insegnare ad insegnare, occorre ciò che Platone chiamava “eros”, che è allo stesso tempo amore, piacere, desiderio. Piacere di trasmettere amore per la conoscenza e amore per gli allievi. L’eros permette di tener a bada il piacere legato al potere, a vantaggio del piacere legato al dono. Solo così si potrà suscitare il piacere e l’amore dell’allievo e dello studente. Là dove non c’è amore, non ci sono che problemi di carriera, di retribuzione, di noia per l’insegnamento. La missione presuppone anche la fede; in questo caso la fede nella cultura e nella mente umana.
I tratti essenziali della missione dell’insegnante possono essere così riassunti:
stimolare una cultura che consenta di distinguere, contestualizzare, globalizzare, affrontare problemi multidimensionali, globali e fondamentali, planetari;
preparare le menti a rispondere alle crescenti sfide poste alla conoscenza umana dalla complessità dei problemi;
favorire un’intelligenza strategica e la scommessa per un mondo migliore;
far conoscere la storia incerta, aleatoria dell’universo, della vita, dell’uomo;
educare alla comprensione umana fra vicini e lontani;
insegnare l’affiliazione (all’Italia, all’Europa, alla sua storia, alla sua cultura, alla cittadinanza repubblicana;
insegnare la cittadinanza terrestre, insegnando l’umanità nella sua unità antropologica e nelle sue diversità individuali e culturali, così come nella sua comunità di destino caratteristico dell’era planetaria, in cui tutti gli uomini sono sottoposti a confronto con gli stessi problemi vitali e mortali.
L’organizzazione disciplinare, istituita nel XIX sec., in particolare con la formazione delle Università moderne, si è poi sviluppata nel XX sec. con lo sviluppo della ricerca scientifica. La disciplina non ha solo a che fare con la conoscenza e con la riflessione interna su se stessa, ma anche con una conoscenza esterna. L’istituzione della disciplina comporta il rischio dell’iper-specializzazione del ricercatore e della “codificazione” dell’oggetto studiato. Mentre l’apertura, l’extradisciplinare, il multidisciplinare è necessario più che mai in un’epoca quale la nostra.
*seridipità = arte di trasformare dettagli apparentemente insignificanti in indizi che consentono di ricostruire la storia
Creazione 6/02/2006
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