Giosuè Carducci (prima parte)
Aula in cui Carducci insegnava |
In questo
articolo tratteremo di Giosuè Carducci,
del poeta giambico e barbaro, dell’erudito inappuntabile,
dell'insegnante carismatico, del conservatore sovversivo (come lui stesso si definiva) ma più
di ogni altra cosa racconteremo la sua avventura umana.
Giosuè Carducci fu definito il
"Vate della Terza Italia"
per la sua poesia eroica e per il prestigio che gli fu riconosciuto dopo
l'Unità del Regno d’Italia. Fu anche critico e studioso.
Nacque a Valdicastello, frazione
di Pietrasanta, in Versilia, nel 1835 dal medico condotto Michele Carducci e da Ildegonda Celli.
Trascorse l'infanzia a Bòlgheri , nella Maremma pisana, dove il padre fu
trasferito.
Così scrive Carducci ad Angelo De Gubernatis
il 14 gennaio 1877: “Nacqui il 27 Luglio 1835 in Valdicastello di Versilia.
A tre anni lasciai la patria, e fui sotterrato nelle maremme pisane. A otto
anni cominciai a studiar latino. M'insegnava mio padre. L’applicazione assidua
su gli autori latini a cui mi costringeva
fu quella che in seguito mi fece riuscir qualche cosa nelle scuole di
Firenze. A 12 anni spiegavo Virgilio e, sapevo a mente i primi 4 libri delle Metamorfosi. Le febbri
maremmane che a 70 anni vennero a visitarmi e mi tennero compagnia per due
annate in sempre più m'infervorarono alla lettura di cui ero passionatissimo.
Da bambino leggevo e leggevo, con un fervore con cui non ho mai letto romanzi,
la Iliade tradotta da Monti e l'Eneíde dal Caro. A 13 anni avevo letto questi due
poemi 4 volte, e 3 volte il Tasso.
L’Ariosto, da bambino non potetti mai leggerlo. Ma la rabbia con cui
leggevo Omero, Virgilio e [il] Tasso è inesplicabile. Fin quando la febbre mi
ardeva tutto, io volevo il Tasso e i miei delirj eran sempre di battaglie. A 11
anni presi l’Alighieri, lessi in un giorno (e mi ricordo era una domenica
d'estate) tutto l'Inferno. Intesi poco, ma quella dura e muscolosa espression
di verso mi rapiva. Il Purgatorio e il Paradiso però non li lessi. Con più
avidità leggevo storie di qualunque genere si fossero e, la Storia universale
del Cantù, che ora leggo tanto malvolontieri, era allora la mia prediletta (
…) Al fine, le storie romane e quella a
me direttissima, la Disfida di Barletta, e le poesie di Berchet che io sapevo
tutte a mente a 11 anni mi avevan pieno
del furore della libertà. Per cui io
disposi, e me ne ricorderò sempre, fra miei fratelli e in pochi compagni una
Repubblica, e si faceva magistrati e
monete di carta ed avevamo scelto le nostre province fra quei boschi di
maremma, e tutto con nomi classici, Arconti, Consoli, mine, talenti, comizi,
province galliche, province libiche, colonie. E combattevamo spesso con sassi e
bastoni, gli uni Romani, Galli e Africani gli altri, gli uni Ghibellini, gli
altri Guelfi; ed io volevo essere sempre romano o guelfo. Al fine vennero le
convulsioni politiche del ‘46 e ‘47. Il furore dell'entusiasmo era veramente
inesplicabile in un fanciullo di 13 anni. Ma io, sempre più infervorato dalla
lettura della rivoluzione francese, sognavo le repubbliche, e fui ritrosissimo
ad applaudire Principi e fui il primo a maledirli. Nella primavera del ‘48
passai da Bolgheri a Castagneto.”
2° Casa di Strada maggiore - Bologna |
La Maremma fu il luogo che spesso
tornò nella sua lirica "dolce
paese, onde portai conforme / l'abito fiero e lo sdegnoso canto ". La famiglia Carducci rimase a Bòlgheri fino al
1849, quando si trasferì a Castagneto e poi
a Firenze.
Dunque fin da bambino Carducci si infiammò di
amore per i classici e per la repubblica, a cui si votò coinvolgendo chi incontrava,
i suoi studenti, ad esempio. L'insegnamento, per Carducci, sempre fu cosa
sacra, da esercitare non solo con amore e con zelo, ma con la coscienza che
quel particolare officio fosse l'espressione di un dovere, il compimento
quotidiano di una missione. A questo
Carducci dedicò la propria esistenza, non con proclami in aula, ma con
l'educazione agli studi severi, impartita prima a se stesso e poi agli scolari.
Quando arrivò a Bologna, il 10 novembre 1860, Carducci trovò una città moderna,
“stupenda”. Più di ogni altra – più di Pistoia o Firenze, di San Miniato
o Pisa – Bologna offriva al giovane professore le giuste opportunità per il
perfezionamento dell’uomo e del cittadino, del poeta e dell’educatore.
Si
laureò nel 1856 alla Scuola Normale di Pisa. Insegnò subito dopo a San Miniato. Nel 1859 sposò Elvira Menicucci, dalla quale ebbe quattro figli: Dante,
Bice, Laura e Libertà. L’anno dopo Terenzio Mamiani, ministro dell'Istruzione, gli conferì
la cattedra di Letteratura Italiana presso l'Università di Bologna.
La morte del fratello Dante, suicida, e poi del padre costrinsero
Carducci a provvedere al mantenimento della madre e del giovanissimo fratello
Valfredo e a dedicarsi esclusivamente all’insegnamento e alla poesia. In questo periodo compose le liriche comprese in "Levia gravia" (1861 - 1871) e in
"Giambi ed epodi" (1867 -
1872).
La libertà
della quale Carducci fu religioso cultore era, innanzi tutto, una libertà di
pensiero, di temperamento, un’insofferenza verso ogni forma di costrizione. Per
questo si trovò non di rado sotto processo. A San Miniato fu «sottoposto a
seria e autorevole ammonizione», invitato «a comportarsi d’ora in avanti
nei luoghi pubblici in quel modo prudente e tranquillo come deve un buon
cittadino e come più specialmente si esige nella posizione sociale, in cui egli
è costituito». Veniva inoltre accusato di essere «indifferente
in fatto di religione», con un’accusa che, nella Toscana granducale, poteva
condurre lontano, perfino all’esclusione dall’insegnamento. A chi, come Pietro
Fanfani, lo accusava di essere un «giovine di 21 anno che non fa professione
d’anacoreta», rispondeva sdegnato: «Da codesta frase così industremente disposta, così
industremente colorita, traluce un non so che di orge, di bische, di lupanari.
Sappi dunque che un giovine dal Real Governo reputato a 18 anni per non indegno
di esser tenuto a studio di filosofia e di filologia, e a 21 dichiarato idoneo
a insegnar greco, latino, toscano e filosofia e storia, ne’ biliardi e nelle
osterie e ne’ bordelli non può aver conversato gran tempo. E il Carducci
come cittadino non ha adulato mai nessun partito, ma neppur mai ha barattato
bandiera, come non si è mai strisciato a nessun potente per fame o di nomea o
di pane, benché neppur questo egli abbia sicuro, egli miserabile ma libero e
sincero uomo. E basta: ché mi pesa parlar più oltre di me: ma talvolta
dalla bassezza di chi ti circonda sei costretto a farti basso anche tu».
A Bologna,
per le sue posizioni politiche, venne
minacciato dal Ministro della Pubblica Istruzione di trasferimento a Napoli, a
insegnarvi latino.
La regina Margherita di Savoia |
Dopo la nomina all'Università di Bologna il
giovane professore si trasferì (1860) con la madre e con la moglie nella città
che più di ogni altra avrebbe amato e nella quale avrebbe vissuto, come
scriverà ad Adriano Lemmi molti anni più tardi, "la vita vera".
Per Carducci iniziò una nuova stagione, ove,
con crescente autorevolezza, si affermò il suo ruolo di poeta, di educatore e
costruttore dell'identità nazionale. Nel
frattempo, amicizie e affetti si intrecciarono agli studi e alla passione
politica, si ché di questa e di quelli sostennero lo slancio e ne resero il
fervore con una nota di schietta umanità.
Di Carducci
ricordiamo queste parole: «Noi
viviamo in un tempo d’accomodamenti così graziosi, di silenzii così
prudenti, di pause così puntuali, di combinazioni così sottili, d’educazione
così squisita, che la maggior difficoltà nel commercio con gli uomini non è di
cattivarsene i favori, ma di capirne il pensiero e la coscienza. Nessuno
è nemico di nessuno. Tutti per qualche verso ci
compatiamo. […]. Tutt’è buono, tutt’è bello e perciò anche tutt’è
lecito. Le ribellioni sono giudicate prima di cattivo gusto, poi dannose per i
ribelli, incomode per gli spettatori dattorno. Tutt’i pagamenti si fanno in
moneta spicciola: i grandi valori non hanno corso».
FONTI:
CARDUCCI, VITA E LETTERATURA. DOCUMENTI, TESTIMONIANZE, IMMAGINI
A
cura di Marco VEGLIA
Casa
Carducci Bologna
Casa
Ed. Rocco Carabba