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giovedì 23 aprile 2020

Giosuè Carducci  (prima parte)
Aula in cui Carducci insegnava
In questo articolo tratteremo di  Giosuè Carducci, del poeta giambico e barbaro, dell’erudito inappuntabile, dell'insegnante carismatico, del conservatore sovversivo (come lui stesso si definiva) ma più di ogni altra cosa racconteremo la sua avventura umana.

Giosuè Carducci fu definito il "Vate della Terza Italia" per la sua poesia eroica e per il prestigio che gli fu riconosciuto dopo l'Unità del Regno d’Italia. Fu anche critico e studioso.
Nacque a Valdicastello, frazione di Pietrasanta, in Versilia, nel 1835 dal medico condotto  Michele Carducci e da Ildegonda Celli. Trascorse l'infanzia a Bòlgheri , nella Maremma pisana, dove il padre fu trasferito.

Così scrive Carducci ad Angelo De Gubernatis il 14 gennaio 1877: “Nacqui il 27 Luglio 1835 in Valdicastello di Versilia. A tre anni lasciai la patria, e fui sotterrato nelle maremme pisane. A otto anni cominciai a studiar latino. M'insegnava mio padre. L’applicazione assidua su gli autori latini a cui mi costringeva  fu quella che in seguito mi fece riuscir qualche cosa nelle scuole di Firenze. A 12 anni spiegavo Virgilio e, sapevo a mente  i primi 4 libri delle Metamorfosi. Le febbri maremmane che a 70 anni vennero a visitarmi e mi tennero compagnia per due annate in sempre più m'infervorarono alla lettura di cui ero passionatissimo. Da bambino leggevo e leggevo, con un fervore con cui non ho mai letto romanzi, la Iliade tradotta da Monti e l'Eneíde dal Caro. A 13 anni avevo letto questi due poemi 4 volte, e 3 volte il Tasso.  L’Ariosto, da bambino non potetti mai leggerlo. Ma la rabbia con cui leggevo Omero, Virgilio e [il] Tasso è inesplicabile. Fin quando la febbre mi ardeva tutto, io volevo il Tasso e i miei delirj eran sempre di battaglie. A 11 anni presi l’Alighieri, lessi in un giorno (e mi ricordo era una domenica d'estate) tutto l'Inferno. Intesi poco, ma quella dura e muscolosa espression di verso mi rapiva. Il Purgatorio e il Paradiso però non li lessi. Con più avidità leggevo storie di qualunque genere si fossero e, la Storia universale del Cantù, che ora leggo tanto malvolontieri, era allora la mia prediletta ( …)  Al fine, le storie romane e quella a me direttissima, la Disfida di Barletta, e le poesie di Berchet che io sapevo tutte a mente a 11 anni mi avevan  pieno del furore della libertà. Per cui  io disposi, e me ne ricorderò sempre, fra miei fratelli e in pochi compagni una Repubblica, e si faceva  magistrati e monete di carta ed avevamo scelto le nostre province fra quei boschi di maremma, e tutto con nomi classici, Arconti, Consoli, mine, talenti, comizi, province galliche, province libiche, colonie. E combattevamo spesso con sassi e bastoni, gli uni Romani, Galli e Africani gli altri, gli uni Ghibellini, gli altri Guelfi; ed io volevo essere sempre romano o guelfo. Al fine vennero le convulsioni politiche del ‘46 e ‘47. Il furore dell'entusiasmo era veramente inesplicabile in un fanciullo di 13 anni. Ma io, sempre più infervorato dalla lettura della rivoluzione francese, sognavo le repubbliche, e fui ritrosissimo ad applaudire Principi e fui il primo a maledirli. Nella primavera del ‘48 passai da Bolgheri a Castagneto.”


2° Casa di Strada maggiore - Bologna

La Maremma fu il luogo che spesso tornò nella sua lirica "dolce paese, onde portai conforme / l'abito fiero e lo sdegnoso canto ". La famiglia Carducci rimase a Bòlgheri fino al 1849, quando si trasferì a Castagneto e poi  a Firenze.
Dunque fin da bambino Carducci si infiammò di amore per i classici e per la repubblica, a cui si votò coinvolgendo chi incontrava, i suoi studenti, ad esempio. L'insegnamento, per Carducci, sempre fu cosa sacra, da esercitare non solo con amore e con zelo, ma con la coscienza che quel particolare officio fosse l'espressione di un dovere, il compimento quotidiano di una missione.  A questo Carducci dedicò la propria esistenza, non con proclami in aula, ma con l'educazione agli studi severi, impartita prima a se stesso e poi agli scolari. Quando arrivò a Bologna, il 10 novembre 1860, Carducci trovò una città moderna, “stupenda”. Più di ogni altra – più di Pistoia o Firenze, di San Miniato o Pisa – Bologna offriva al giovane professore le giuste opportunità per il perfezionamento dell’uomo e del cittadino, del poeta e dell’educatore.
Casa Carducci
Si laureò nel 1856 alla Scuola Normale di Pisa. Insegnò subito dopo a San Miniato. Nel 1859 sposò Elvira Menicucci, dalla quale ebbe quattro figli: Dante, Bice, Laura e Libertà.  L’anno dopo Terenzio Mamiani, ministro dell'Istruzione,  gli conferì  la cattedra di Letteratura Italiana presso l'Università di Bologna.
La morte del fratello Dante, suicida, e poi del padre costrinsero Carducci a provvedere al mantenimento della madre e del giovanissimo fratello Valfredo e a dedicarsi esclusivamente all’insegnamento e alla poesia. In questo periodo compose le liriche comprese in "Levia gravia" (1861 - 1871) e in "Giambi ed epodi" (1867 - 1872).
La libertà della quale Carducci fu religioso cultore era, innanzi tutto, una libertà di pensiero, di temperamento, un’insofferenza verso ogni forma di costrizione. Per questo si trovò non di rado sotto processo. A San Miniato fu «sottoposto a seria e autorevole ammonizione», invitato «a comportarsi d’ora in avanti nei luoghi pubblici in quel modo prudente e tranquillo come deve un buon cittadino e come più specialmente si esige nella posizione sociale, in cui egli è costituito».  Veniva inoltre accusato di essere «indifferente in fatto di religione», con un’accusa che, nella Toscana granducale, poteva condurre lontano, perfino all’esclusione dall’insegnamento. A chi, come Pietro Fanfani, lo accusava di essere un «giovine di 21 anno che non fa professione d’anacoreta», rispondeva sdegnato:  «Da codesta frase  così industremente disposta, così industremente colorita, traluce un non so che di orge, di bische, di lupanari. Sappi dunque che un giovine dal Real Governo reputato a 18 anni per non indegno di esser tenuto a studio di filosofia e di filologia, e a 21 dichiarato idoneo a insegnar greco, latino, toscano e filosofia e storia, ne’ biliardi e nelle osterie e ne’ bordelli non può aver conversato gran tempo. E il Carducci come cittadino non ha adulato mai nessun partito, ma neppur mai ha barattato bandiera, come non si è mai strisciato a nessun potente per fame o di nomea o di pane, benché neppur questo egli abbia sicuro, egli miserabile ma libero e sincero uomo. E basta: ché mi pesa parlar più oltre di me: ma talvolta dalla bassezza di chi ti circonda sei costretto a  farti basso anche tu».

A Bologna, per le sue posizioni politiche,  venne minacciato dal Ministro della Pubblica Istruzione di trasferimento a Napoli, a insegnarvi latino.
La regina Margherita di Savoia
Dopo la nomina all'Università di Bologna il giovane professore si trasferì (1860) con la madre e con la moglie nella città che più di ogni altra avrebbe amato e nella quale avrebbe vissuto, come scriverà ad Adriano Lemmi molti anni più tardi, "la vita vera". 
Per Carducci iniziò una nuova stagione, ove, con crescente autorevolezza, si affermò il suo ruolo di poeta, di educatore e costruttore dell'identità nazionale.  Nel frattempo, amicizie e affetti si intrecciarono agli studi e alla passione politica, si ché di questa e di quelli sostennero lo slancio e ne resero il fervore con una nota di schietta umanità.
Di Carducci ricordiamo queste parole:  «Noi viviamo in un tempo d’accomodamenti così graziosi, di silenzii così prudenti, di pause così puntuali, di combinazioni così sottili, d’educazione così squisita, che la maggior difficoltà nel commercio con gli uomini non è di cattivarsene i favori, ma di capirne il pensiero e la coscienza. Nessuno è nemico di nessuno. Tutti per qualche verso ci  compatiamo. […]. Tutt’è buono, tutt’è bello e perciò anche tutt’è lecito. Le ribellioni sono giudicate prima di cattivo gusto, poi dannose per i ribelli, incomode per gli spettatori dattorno. Tutt’i pagamenti si fanno in moneta spicciola: i grandi valori non hanno corso».

FONTI: CARDUCCI, VITA E LETTERATURA. DOCUMENTI, TESTIMONIANZE, IMMAGINI
A cura di Marco VEGLIA
Casa Carducci Bologna
Casa Ed. Rocco Carabba



Continua la narrazione dell’avventura umana di

Giosué Carducci  (seconda parte)
Nel maggio del 1860 mille giovani patrioti guidati dal Generale Garibaldi compirono la grande impresa: la spedizione dei Mille. Anche Giosuè partecipò alla lotta, impugnando la più efficace delle sue armi: la poesia. Al poeta però sarebbe sempre restato un rimpianto: «Oh se le sventure non coglievano la mia famiglia anzi tempo, ed avessi potuto fare anch’io qualche cosa (e non solo scribacchiare!) sarei stato più contento più gioioso e anche avrei potuto far meglio in letteratura; perché la vita vien solamente dall’opera, dall’opera ardente e dal pericolo e dal contrasto. In questa vita che meno ora tutto è gelo, gelo la cattedra, e gelo l’uditorio, gelo io stesso. Al diavolo!»
Ferdinando Cristiani, garibaldino e suo grande amico, così gli scriveva il 23 agosto 1860: “Caro Giosuè, due sole parole per significarti che questa mattina alle ore 5 sono arrivato a Palermo. Domani parto alla volta di Milazzo dove appena giunto sarò alle fucilate. Dunque se fra un mese almeno non vedi più mie lettere sai quello che mi sarà toccato. Dunque abbiti  mille e mille baci. Se tu vedessi, caro Giosuè, che spettacolo sublime è il vedere migliaia e migliaia di scelti giovani con le loro bluse scarlatte, cappello alla calabrese, percorrere giulivi e festanti le vie di Palermo. Evviva dunque il prode Generale, unico e vero salvatore d’Italia.”
All’indomani dell’Unità d’Italia, la classe dirigente, e con essa la Monarchia costituzionale, apparvero a Carducci inadeguate al loro  compito storico e, peggio, assoggettate alla Chiesa.  A Roma, contro Pio IX non si poteva andare «che con la rivoluzione».
L’Italia che Carducci aveva sognato era niente senza Roma capitale; e la politica conservatrice della Destra accendeva nuove ire e nuovi sdegni. A Goffredo Mameli, morto per la Repubblica romana del 1849, Carducci dedicò alcune tra le pagine più commosse e appassionate, facendone il primo esempio di culto laico della Terza Italia, per un Risorgimento che fosse vissuto come religione civile: “Tu cadevi, o Mameli, con la pupilla cerula fissa a gli aperti cieli, tra un inno e una battaglia cadevi;  e come un fior ti rideva da l’anima la fede, allor che il bello e biondo capo languido chinavi, e te, fratello,copriva l’ombra siderea di Roma e i tre color.
Amici pedanti: Gargani, Carducci, Chiarini
Carducci,  propugnatore dell’ideale repubblicano, dava certo fastidio alla classe politica dirigente. Quando, nel 1867-68, dopo l’orrore di Mentana, Carducci si espose sempre più politicamente, finì col subire procedimenti disciplinari. La Prefettura lo teneva sotto osservazione, ed esprimeva al Ministro il parere che egli dovesse essere allontanato da Bologna. Ma Giosuè non si lasciò intimidire, né fu disposto a scendere a compromessi.
Nella poesia Enotrio cantò il ventennale  dell’8 agosto 1848: «La santa Libertà non è fanciulla da poco rame […]Marchesa ella non è che in danza scocchi da’ tondeggianti membri agil diletto,il cui busto offre il seno ed offron occhi tremuli il letto …».
Il 1870, per Carducci, non fu solo l’anno della redenzione di Roma, ma anche l’anno dei lutti familiari: il 3 febbraio moriva Ildegonda Celli, la madre. Giosuè ne patì al punto che non ne scrisse neppure un verso. Venne poi l’autunno, e il 9 novembre vi fu un altro dolore: il più grande della sua vita. I medici avevano fatto di tutto, ma non riuscirono a salvare il piccolo Dante, il figlioletto, che, caduto «in un sopore quasi brutale, rotto di quando di quando dalle smanie della febbre e da qualche intervallo di conoscenza in cui chiamava la mamma», lo lasciava per sempre. Ma occorreva riprendere il lavoro, e continuare a battersi per  «le grandi irradiazioni delle idee che gli uomini savi chiamano utopie».
Dopo la morte di Dante, Giosuè mostrò segni di insofferenza e irrequietezza: la tragedia portò con sé la necessità dell’oblio. Una nuova e inaspettata primavera gli fu offerta, nel corso del 1871, dall’irruzione nella sua vita di Carolina Cristofori Piva (Lidia), moglie di un ufficiale in congedo dall’esercito regio, già garibaldino. Con lei Carducci avviò un colloquio epistolare tra i più celebri e suggestivi dell’Ottocento. E la svolta contagiò anche la poesia: l’esperienza barbara,  vera e propria rivoluzione nella tradizione metrica e poetica italiana, per l’allargamento a territori esistenziali e letterari mai esplorati prima, per le suggestioni wagneriane.
Il tempo dei privilegi è passato…  8 agosto 1873: il democratico Carducci, per l’anniversario della cacciata degli Austriaci da quella che ormai era, a tutti gli effetti, la sua città, pronunciò un discorso appassionato alla cerimonia di premiazione dei migliori allievi delle scuole serali, che si tenne nella chiesa sconsacrata di Santa Lucia. Elogiò i sacrifici degli operai e degli agricoltori, che avevano trovato il tempo e l’energia per studiare dopo il duro lavoro, invocò commosso la discesa della «luce spirituale» dell’istruzione nella società civile,  e annunciò la fine del tempo dei privilegi.
Tra il 5 ed il 7 novembre del 1878 Umberto I e la giovane regina Margherita di Savoia giunsero a Bologna, accolti da festosi cortei popolari, e il 6 novembre fecero visita all’Università dove, a rendere omaggio assieme al corpo accademico, c’era Giosuè Carducci. Guardando in quegli anni alla situazione politica italiana ed europea, Carducci presagiva tempi duri, che però non spensero nel suo animo le aspirazioni di palingenesi. «Brutti tempiscriveva al Chiarini nel luglio 1877E non è proprio che questo sia un lamento. L’Europa è marcia, è marcia, marcia: e così deve essere, necessariamente: putrescat ut resurgat»
La corruzione si attacca anche ai migliori, da Lettere di Carducci - Lettera di Carducci a Dafne Gargiolli del 24 ottobre 1883:  
Gentilissima Signora,
 se Le dicessi che io mi trovo contento di questa vita romana, Le direi una gran bugia. Lo scirocco e la pioggia, la camorra e le chiacchiere, se non mi fiaccano, mi affrangono: il caldo umido, morale e fisico, non mi si affà. Amo perdermi e dimenticarmi lungo l’Appia e la Flaminia, o sul Gianicolo, o per il deserto tra il Foro e le Terme di Caracalla e il Laterano: ma Piazza Colonna e i Ministeri e il palazzo della Prefettura mi annoiano e peggio. Desidero Bologna, e sospiro ai silenzi verdi di San Leonardo, dove imagino che mi troverei benissimo per tradurre Tibullo, se però Ella non volesse costringermi a far versi, «mestiere esecrabile a un italo cuor». […]  All’amico nostro, per tornare a lui, nocque la lontananza di Roma:  i lontani qui sono dimenticati e morti: le lettere non giovano, non le leggono o le scordano tutte per intiero dopo la lettura; promettono, e poi, senza pur volerlo, non attengono o fanno il contrario di ciò che avevano promesso. Non c’e autorità che tenga; nessuno vale per questa povera gente di ministri, se non i deputati con lo spaventacchio dei voti. Il potere legislativo invade, intralcia e guasta la macchina dell’esecutivo. Le «piovre» dei cinquecento deputati coi cinquecentomila (metto una riga di corrispondenza; ma sono più centinaia di migliaia) figliuoli, nepoti, mogli, amanti delle mogli, mantenute, amici delle mantenute, ruffiani ed elettori, succhiano tutto, empiono tutto, imbrattano tutto. La corruzione si attacca anche ai migliori. Fan delle brutte azioni senza accorgersene, in buona fede. Ahi, signora, parliamo d’altro; o meglio non parliamo più: il bianco della carta è finito, ma non la fede. Io seguiterò ad occuparmi; per i desideri giusti di Carlo speriamo di arrivare ad ottenere qualche cosa. Scrivendole così a lungo pur di cose spiacenti, sfogandomi, mi pare di star meglio, cioè di esser meno triste. Aspetto la consolazione d’una sua parola, se non armonicamente parlata, scritta elegantemente.”

Egli era divenuto più consapevole dell’urgenza immediata di una unificazione morale della nazione, e di un ulteriore impegno per il processo di nation building. Come larga parte degli uomini del 1860, egli si volgeva dunque (pur restando un repubblicano all'antica) alla monarchia, in cui poteva scorgere una garanzia efficace contro il clericalismo, da un lato, e contro le forze socialiste dall’altro. L’incontro con i Reali a Bologna suggellò  una nuova alleanza allo scopo di accelerare il processo di modernizzazione del paese e di portare a compimento le riforme necessarie.
Quando giunse la grande ora, il 16 febbraio 1907, a pochi giorni dal premio Nobel  che ne consacrò la vita e l’operosità, Giosuè poteva ancora infondere, anche nel silenzio della morte, un insegnamento imperituro.
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FONTI: CARDUCCI, VITA E LETTERATURA. DOCUMENTI, TESTIMONIANZE, IMMAGINI
A cura di Marco VEGLIA
Casa Carducci Bologna
Casa Ed. Rocco Carabba


Giosué Carducci (terza parte)
Dopo la morte di Lidia (Carolina Cristofori Piva), il cinquantacinquenne Giosuè, nonostante la paresi della mano destra, che lo aveva colpito nel 1885, si sentiva ancora vivo e pronto ad assaporare un nuovo soffio di giovinezza. Il 5 dicembre 1889 la ventenne poetessa Annie Vivanti si rivolgeva a lui con queste parole «Audacies fortuna iuvat»,  per chiedergli di leggere i suoi versi. Carducci rispose e fissò un incontro. Subito entusiasta di quelle poesie, il 19 febbraio 1890 inviava ad Annie una lettera che sarebbe divenuta la prefazione alla Lirica di Annie Vivanti , 1886-1890 (Treves, Milano 1890).
Nel giugno 1882 Carducci perdeva il secondo padre: Giuseppe Garibaldi e ne improvvisava la commemorazione Per la morte di Giuseppe Garibaldi, scrivendo dell’uomo da lui «più adorato […] tra i vivi»: «Tal qual fu […] [egli] è il più popolarmente glorioso degl’italiani moderni, forse perché riunì in sé le qualità molteplici della nostra gente, senza i difetti e i vizi che quelle rasentano o esagerano o mèntono».. Nel 1880 gli aveva dedicato una «barbara» in cui l’eroe, nella sconfitta, si sentiva tutt’altro che vinto, giacché sapeva che la storia era dalla sua parte.
Nel dicembre 1882, Carducci si schierò apertamente di fronte ad un episodio che fece discutere: a settembre il patriota Guglielmo Oberban, accusato di aver attentato alla vita dell’imperatore d’Austria, era stato arrestato e giustiziato con l’impiccagione. Victor Hugo, «il grande poeta», ne aveva assunto la difesa, e da Bologna il professor Carducci aveva ribadito che il cospiratore non era un condannato, ma un «confessore e un martire della religione della patria» nella rivendicazione dell’italianità di Trento e Trieste, colpevolmente ignorata dal governo di Roma.
Nel 1883 si riaccesero gli scontri all’interno della Sinistra parlamentare. In quel clima Carducci si legò a Francesco Crispi, combattente garibaldino, eroe dei Mille, presidente della Camera nel biennio 1876-77, e ad Adriano Lemmi, già membro, dal 1877, della Commissione per la restaurazione delle finanze del Grande Oriente, Gran Maestro aggiunto dopo la morte di Giuseppe Garibaldi e Gran Maestro dal 1885.
Il 12 giugno 1888, per l’ottavo centenario dell’Alma Mater Studiorum, Carducci tenne nel cortile dell’Archiginnasio, alla presenza dei Reali (il Re V. E. III e la regina Margherita, grande estimatrice del poeta)  e di oltre trecento rappresentanti delle università di tutto il mondo, un discorso che Gabriele d’Annunzio ritenne : «tra le più mirabili prose di tutta quanta la letteratura nostra  per magnificenza di stile, per grandiosità di pensiero» e «finezza di sentimento». Quell’«altissima festa dello spirito», come la stampa laica romana definì l’evento, fu un trionfo per l’Università di Bologna e per il professor Carducci che più di ogni altro l’aveva rappresentata: Giosuè vedeva definitivamente consacrata la sua fama europea e internazionale. Con essa, anche Bologna e la sua Università venivano ad essere di nuovo al centro, come lo furono nei secoli, dell’incivilimento della cultura d’Europa.
Il 10 dicembre 1906 Giosuè Carducci ricevette il premio Nobel per la letteratura: aveva cantato l’Italia e saldato l’antichità classica greco latina con i valori dell’Europa contemporanea. Così si rese onore al professore, al poeta Carducci, alla sua voce europea, che aveva iniziato a diffondersi in Occidente e avrebbe continuato a farlo ben oltre le atmosfere della Montagna incantata.
Il Premio Nobel, conferito a Carducci, era il tributo e il sigillo a favore di un vita, quella del grande poeta, dedicata totalmente alla letteratura, alla civiltà italiana ed europea, nel silenzio e nel giubilo, ormai al crepuscolo della propria coscienza di uomo.
L’11 settembre 1855, quando ancora il giovane poeta di Valdicastello doveva approdare alla sua prima esperienza d’insegnante a San Miniato al Tedesco, Niccolò Tommaseo, che vigilava sulla produzione letteraria toscana, non mancò di scrivere al Vieusseux: «Chi è quel Carducci che fa quelle note a Virgilio, dove i raffronti delle traduzioni diventano un bel commento?». Vieusseux, padre dell’ Antologia, così gli rispondeva: «Il Carducci di cui mi domandate è un giovane che non ha ancora 18 anni compiti, figlio di un medico di provincia, protetto ed amato dal bravo Thouar il quale lo avviò agli studi, lo preparò per gli esami, gli avanzò (lui povero) ciò che gli occorreva per fare i suoi corsi universitari a Pisa: giovane ancora rozzo e senza mondo, ma che ha fatto esami stupendi, e che promette assai, moltissimo, pel futuro. Dio voglia conservarlo per l’onore delle lettere italiane. Egli è presentemente in Provincia presso suo padre ad assistere i colerosi come segretario di una commissione di soccorsi. S’egli campa farà parlar di sé». E così fu.
Carducci insegnò all’Università di Bologna per più di quarant’anni. Furono anni di grandi battaglie politiche, ma anche di uno studio intenso e fruttuoso, che lo assorbì quasi totalmente. L’obiettivo principale del magistero carducciano fu quello di formare una nuova classe di insegnanti preparati e pronti a far fronte alle esigenze culturali e linguistiche della nascente nazione italiana, della quale non a torto Carducci fu considerato l’educatore. Secondo Carducci era  necessario distribuire sul territorio maestri che educassero i cittadini “uno a uno”, uniformando i saperi e rafforzando il senso civico, per ispirare e rafforzare il sentimento di appartenenza ad un medesimo Stato. Su suggerimento dell’amico Emilio Teza, Carducci era solito scrivere le sue lezioni, preparate meticolosamente, levandosi prima dell’alba affinché tutto fosse pronto al suo ingresso in aula.
Dopo un anno di esonero dall’insegnamento per l’aggravarsi delle precarie condizioni di salute, Carducci salì nuovamente in cattedra per tenere quelli che sarebbero stati gli ultimi corsi della sua lunga carriera. Nel mese di novembre del 1904 scrisse una lettera al Ministro della Pubblica Istruzione, Orlando, chiedendo di essere finalmente collocato a riposo.
Carducci sentì per Pascoli l’affetto paterno che lo legò a coloro che erano stati suoi scolari. L’Epistolario documenta il sollecito interessamento presso ministri, direttori generali, provveditori agli studi per le aspirazioni, per i bisogni, per i diritti, insomma per la carriera dei giovani che ricorrevano all’aiuto del loro grande Maestro. E Pascoli fruì più volte di tale aiuto. Senza dubbio, nei confronti di Pascoli, l’affetto paterno si mutava in una specie di accorata tenerezza per il temuto traviamento di quel povero figliuolo. Fra il professore  e l’allievo vi fu  tuttavia  sempre un certo disagio, che rese più volte opportuna l’attenta e garbata mediazione di Severino, di cui Carducci si servì anche per comunicare a Pascoli il conferimento della Cattedra.
Pascoli ricevette il paterno investimento della cattedra carducciana con la visita reverente e affettuosa alla casa del Maestro, il giorno stesso della prolusione. Carducci si alzò dalla poltrona per abbracciarlo lungamente, e piangeva di santa tenerezza.
Quell’accoglienza fu il compenso che Giovannino Pascoli aveva sognato per  i patimenti e il lavoro profusi.
Carducci aveva della letteratura e dell’arte un concetto alto, nobilissimo, essa non poteva essere vacua esercitazione di stile ma espressione di sentimento e pensiero. I soggetti trattati hanno tuttora importanza civile, patriottica, umana. Nell’opera di Carducci vive un mondo intero; un mondo di memorie storiche grandiose, di glorie ed eroismi patrii, di aspirazioni a ideali di verità e giustizia. E se Dante descrisse a fondo tutto l’universo, così Carducci ha raccolto tutto quanto di più nobile e alto può infiammare e commuovere la mente e il cuore; tutto al fine di concorrere all’elevazione morale, politica, intellettuale della patria.

FONTI: CARDUCCI, VITA E LETTERATURA. DOCUMENTI, TESTIMONIANZE, IMMAGINI
A cura di Marco VEGLIA
Casa Carducci Bologna
Casa Ed. Rocco Carabba
















lunedì 13 aprile 2020

https://ilsorpassomts.com/2020/04/13/occorre-una-nuova-umanita-autentica-solidale-responsabile-e-meritevole/?fbclid=IwAR3LaNEoZ_b99LhZCuZi-eLa3IP3ITw6a0zuMdgtPMFU2WqWsjI0MMzSPo4
Occorre una nuova Umanità: autentica, solidale, responsabile e meritevole.

Diversi mesi fa, fra i vari articoli, ne ho scritto uno su “La vera bellezza” e un altro “Per riflettere sulla Sanità”.
In questi giorni, come tanti di Voi, seguo attraverso i Media le drammatiche notizie che arrivano dalle regioni del nostro Paese e del mondo, e non posso che riflettere.
Rifletto su quanto l’uomo sia capace di dimenticare, su quanto sia capace di essere ingordo, su quanto non impari dalla Storia dei suoi Padri ed antenati, di come certi talenti e geni non esistano più. E constato come non tutti gli uomini abbiano voglia di maturare e di migliorare … In un passo evangelico di Luca, Lc. 2,14, è scritto: ”beati gli uomini di buona volontà”.
Sull’articolo del maggio 2019, “Per riflettere sulla Sanità”, scrivevo: “Le condizioni di lavoro nei reparti ospedalieri e nei servizi territoriali stanno rapidamente degradando. Il blocco del turnover, introdotto con la Legge n. 296 del 2006, ha determinato una carenza nelle dotazioni organiche di circa 10 mila medici. I piani di lavoro, i turni di guardia e di reperibilità vengono coperti con crescenti difficoltà …” (…) Nelle corsie ospedaliere mancano siringhe, medicinali a fronte dei “bonus” percepiti, oltre al proprio elevato reddito, dagli alti dirigenti per la produttività aziendale. (…) il Codacons di Catania ha annunciato un esposto alla Procura e alla Corte dei Conti: «Perché premiarli, visti i disservizi negli ospedali?» (…) L’articolo 32, comma 1, della Costituzione italiana recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.” Nella realizzazione del dettato costituzionale, tuttavia, i legislatori, i politici devono contemperare gli interessi connessi alla salute con quelli legati alla sostenibilità finanziaria del Sistema Italia. Il diritto alla salute, quindi, deve essere bilanciato con il principio della regolarità dei conti pubblici, anch’esso costituzionalmente previsto nell’art. 81 e implicito nell’art. 97. E’ chiaro che lo Stato deve mirare ad avere i conti in ordine per potersi “permettere” di spendere nei settori di rilievo sociale (…) E i conti sono legati alle entrate. E fra le entrate vi sono le imposte, le tasse, che vanno pagate. Molti cittadini purtroppo non ottemperano ai propri doveri. (…) Con il gettito delle entrate lo Stato finanzia i servizi pubblici di cui beneficiamo: il Sistema Sanitario Nazionale; l’Istruzione; le Forze dell’Ordine; la Giustizia, ed altri servizi”.
Nel periodo nefasto, che attraversiamo, è sotto gli occhi di tutti che cosa significhi non avere pagato giustamente le tasse, non avere contribuito regolarmente al Bene Comune: ospedali inadeguati a proteggere gli affetti a noi più cari (un figlio, una madre, un padre, un fratello). Oggi la casa è in fiamme e non ci sono “pompieri” che possano spegnere l’incendio. Non ci sono “pompieri” poiché non ci sono soldi per pagarli, per investire. Tutti si ostinano ad ostentare, a far festa. Ma quale festa, se non riusciamo a difendere i nostri affetti? Fenomeni di evasione o elusione fiscale hanno ridotto il gettito a danno dello Stato, quindi a danno di tutti, della nostra intera Comunità Nazionale. E ora? Ora attendiamo aiuti. Già gli aiuti … Da parte di Chi? Attendiamo aiuti da parte di chi ha dimenticato di essere stato graziato più di una volta. Sia dopo la Prima sia dopo la Seconda Guerra mondiale. Aspettiamo aiuti da parte di coloro che hanno cancellato ogni memoria, forti della propria tracotanza. E che cosa potevamo/possiamo aspettarci da chi ha negato i forni crematori ad Auschwitz Birkenau? Da chi ha rifiutato di citare la comune matrice cristiana nella redazione della Costituzione dell’Europa Unita? Ora, invece, l’ invisibile “Coronavirus” pone sotto la lente di ingrandimento non solo un’Europa dal respiro culturale modesto e mediocre, quanto un’Europa fatta da mercanti e banchieri avidi e corrotti. E’ un’Europa ipocrita, quella in cui viviamo, che grida allo scandalo se si “addita” qualche personaggio ebreo ma poi decide nuovi “campi di sterminio”. E’ questa la verità e va gridata! Poco più di un anno fa l’allora Presidente della Commissione europea Junker si rammaricava di aver "dato troppa importanza all’influenza del Fondo monetario internazionale" ed esprimeva il suo rincrescimento per non essere stati solidali con la Grecia, ridotta al fallimento! In Grecia chi potrà dimenticare l’umiliazione e le ferite sofferte? Uomini privi di coscienza e consapevolezza!
Poi seguo la Celebrazione della Pasqua dalla Cattedra Sacra di San Pietro e la benedizione “Urbi et Orbi” di Papa Francesco in diretta televisiva e le mie riflessioni si spostano in un altro mondo. Mi tornano alla mente i miei studi in Storia: il vuoto di potere alla fine dell’Impero Romano d’Occidente e il vecchio Papa Leone I, detto Leone Magno, che fermò con il simbolo della Croce l’avanzata del “flagello di Dio”, Attila, assieme a Simone Pietro e Paolo di Tarso, che apparvero in sogno al re degli Unni dissuadendolo dall’attaccare la Città Eterna.

Ora il “flagello”, versione XXI° secolo, è un virus.

Benedette siano le parole del Santo Padre rivolte ad un’Europa indifferente ed egoista! Dovrebbero interrogarsi in molti dopo l’ascolto di Papa Francesco! Benedetto sia quell’anziano Pastore che non demorde, che arranca faticosamente sotto i colpi degli anni e della Storia e che da solo, per strada, osa sfidare il virus, forte della sua fede in Cristo, radicato nel suo Credo. E’ più autentico, lucido e lungimirante Lui, che tutti i potenti Leaders del mondo insieme! Benedetto sia quel Vescovo di Roma che inizia le liturgie con affanno respiratorio e rinvigorisce dopo la Consacrazione del Pane e del Vino, tanto che la stessa voce, dapprima flebile, poi improvvisamente si irrobustisce. Benedetti siano quei luoghi di culto, gloria della Cristianità, ma anche elogio imperituro di quei grandi ingegni che hanno concepito e realizzato architetture e geometrie di incommensurabile valore e insuperabile bellezza in una policromia di marmi, di affreschi, di volte, di sculture, di vetrate, di giochi di luce … da capogiro. Così torno con la mente al mio articolo su “La vera bellezza” pubblicato nel gennaio del 2019, quando scrissi “ (…) per cui il Cristianesimo ha prodotto la più grande bellezza artistica di tutti i tempi, c'è da chiedersi come abbiano potuto i grandi artisti concepire e produrre cotanta bellezza! La risposta è nella Rivelazione del Verbo fattosi Carne”. Già, perché quegli artisti avranno anche avuto personalità discutibili o essere stati al servizio di un Signore o di un Papa Mecenate ma certamente erano tutti animati da un comune e sublime sentire che affondava le proprie radici nella Cultura Cristiana, la quale attraversava tutta la società del tempo fin dal primo Medioevo, come hanno scritto storici di altissimo profilo: Marc Bloch e Arnold Hauser.

E il “nuovo flagello”, il virus, è l’arma di Madre Natura che opportunamente ricorda all’uomo di ravvedersi, di abbandonare consuetudini pagane che disperdono e offuscano la sua coscienza. Occorre una nuova Umanità: autentica, solidale, responsabile e meritevole.












giovedì 13 febbraio 2020



Pubblicato su Il Sorpasso di Montesilvano: Il Sorpassoilsorpassomts.com, ottobre 2019

L'ebrea Natalia e il Crocefisso

(tratto da «Quella croce rappresenta tutti», di Natalia Ginzburg, L'Unità, 22 marzo 1988)
Natalia Levi, ebrea, nasce a Palermo nel 1916. Il padre, Giuseppe Levi, noto scienziato triestino, è un antifascista che viene imprigionato durante il regime.
La famiglia Levi si trasferisce a Torino quando Natalia è ancora bambina e frequenta scuole in cui purtroppo è emarginata perché ebrea e figlia di un antifascista. Così, già adolescente, trova conforto nella scrittura. Le sue prime opere risalgono all’inizio degli anni Trenta, quando sono pubblicate sulla rivista Solaria. Nel 1938 sposa Leone Ginzburg, grande letterato italiano, anch’egli ebreo, figlio di una famiglia di immigrati russi. Natalia prende così il cognome del marito, con cui firma la sua produzione letteraria, divenendo famosa. Sempre grazie al marito stringe contatti con i maggiori intellettuali antifascisti torinesi che, all’epoca, ruotano attorno alla casa editrice Einaudi.
Dopo la promulgazione delle “leggi  fascistissime” la sua famiglia vive situazioni di emarginazione ed esclusione. Nel 1940 la scrittrice, assieme al marito, viene mandata al confino in Abruzzo, a Pizzoli (Aq), dove resterà per tre anni. Nel racconto Inverno in Abruzzo definisce quel periodo come “il tempo migliore della mia vita“. Lascia il confino nel 1943 su un camion di tedeschi che ne ignorano l’identità e che sono diretti a Roma.
Ricordo la scrittrice ebrea in seguito al clamore suscitato recentemente dalle esternazioni di qualche nostro politico sul Crocefisso a scuola.

Natalia Ginzburg già nel lontano 1988, collaborando con l’Unità e riferendosi al mondo ebraico, scrisse:

- “Dicono che il crocifisso deve essere tolto dalle aule della scuola. Il nostro è uno stato laico che non ha diritto di imporre che nelle aule ci sia il crocifisso. La signora (….), insegnante a Cuneo, aveva tolto il crocefisso dalle pareti della sua classe.  Le autorità scolastiche le hanno imposto di riappenderlo. (.…) 

Per quanto riguarda la sua propria classe, ha pienamente ragione. Però a me dispiace che il crocefisso scompaia per sempre da tutte le classi. Mi sembra una perdita. Tutte o quasi tutte le persone che conosco dicono che va tolto. Altre dicono che è una cosa di nessuna importanza.
I problemi sono tanti e drammatici, nella scuola e altrove, e questo è un problema da nulla.
E’ vero. Pure, a me dispiace che il crocefisso scompaia. Se fossi un insegnante, vorrei che nella mia classe non venisse toccato. Ogni imposizione delle autorità è orrenda, per quanto riguarda il crocefisso sulle pareti. Non può essere obbligatorio appenderlo. Però secondo me non può nemmeno essere obbligatorio toglierlo. Un insegnante deve poterlo appendere, se lo vuole, e toglierlo se non vuole.Dovrebbe essere una libera scelta. Sarebbe giusto anche consigliarsi con i bambini. Se uno solo dei bambini lo volesse, dargli ascolto e ubbidire. A un bambino che desidera un crocefisso appeso al muro, nella sua classe, bisogna ubbidire. (…)" -


Il Crocefisso non insegna nulla? Tace? L'ora di religione genera una discriminazione fra cattolici e non cattolici?

Così continua Natalia Ginzburg: - “Ma il crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. E' l'immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l'idea dell'uguaglianza fra gli uomini fino allora assente.

La rivoluzione cristiana ha cambiato il mondo. Vogliamo forse negare che ha cambiato il mondo? Sono quasi duemila anni che diciamo "prima di Cristo" e "dopo Cristo". O vogliamo forse smettere di dire così?
Il crocifisso non genera nessuna discriminazione. E' muto e silenzioso. C'è stato sempre. Per i cattolici, è un simbolo religioso. Per altri, può essere niente, una parte del muro. E infine per qualcuno, per una minoranza minima, o magari per un solo bambino, può essere qualcosa di particolare, che suscita pensieri contrastanti. I diritti delle minoranze vanno rispettati. Dicono che da un crocifisso appeso al muro, in classe, possono sentirsi offesi gli scolari ebrei. Perché mai dovrebbero sentirsene offesi gli ebrei? Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato, e non è forse morto nel martirio, come è accaduto a milioni di ebrei nei lager?"-
E in quel Cristo crocifisso non “incontriamo” forse un altro uomo innocente, perseguitato, screditato, venduto, condannato, rintracciabile ad ogni latitudine?
Ancora Natalia: - “Il crocifisso è il segno del dolore umano. La corona di spine, i chiodi, evocano le sue sofferenze. La croce che pensiamo alta in cima al monte, è il segno della solitudine nella morte. Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro umano destino.Il crocifisso fa parte della storia del mondo. Per i cattolici, Gesù Cristo è il figlio di Dio. Per i non cattolici, può essere semplicemente l'immagine di uno che è stato venduto, tradito, martoriato ed è morto sulla croce per amore di Dio e del prossimo. Chi è ateo, cancella l'idea di Dio ma conserva l'idea dei prossimo. Si dirà che molti sono stati venduti, traditi e martoriati per la propria fede, per il prossimo, per le generazioni future, e di loro sui muri delle scuole non c'è immagine. "
E' vero, ma il crocifisso li rappresenta tutti. Come mai li rappresenta tutti?
Perché prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei e neri e bianchi, e nessuno prima di lui aveva detto che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la solidarietà fra gli uomini. E di esser venduti, traditi e martoriati e ammazzati per la propria fede, nella vita può succedere a tutti. A me sembra un bene che i ragazzi, i bambini, lo sappiano fin dai banchi della scuola”. -

Ma che significato ha quella Croce? Che cosa rappresenta?

-“Gesù Cristo ha portato la croce. A tutti noi è accaduto o accade di portare sulle spalle il peso di una grande sventura. A questa sventura diamo il nome di croce, anche se non siamo cattolici, perché troppo forte e da troppi secoli è impressa l'idea della croce nel nostro pensiero. Tutti, cattolici e laici portiamo o porteremo il peso di una sventura, versando sangue e lacrime e cercando di non crollare. Questo dice il crocifisso. Lo dice a tutti, mica solo ai cattolici. Alcune parole di Cristo, le pensiamo sempre, e possiamo essere laici, atei o quello che si vuole, ma fluttuano sempre nel nostro pensiero ugualmente. Cristo ha detto "ama il prossimo come te stesso". Erano parole già scritte nell'Antico Testamento, ma sono divenute il fondamento della rivoluzione cristiana. Sono la chiave di tutto. (….)
E' tolleranza consentire a ognuno di costruire intorno a un crocifisso i più incerti e contrastanti pensieri.”-
F.to          Gabriella Toritto


Fonte: «Quella croce rappresenta tutti», di Natalia Ginzburg, L'Unità, 22 marzo 1988
ripubblicato da Il Giornale dell’Umbria, 28/10/2003

giovedì 26 dicembre 2019

Pubblicato su "Il Grande Sorpasso" di novembre 2019

L'“Oratorio” del Maestro Marcello Bronzetti
Tutto è iniziato con un invito di Maria Teresa Anelli: amica, sorella, corista, dirigente scolastica, funzionario MIUR, impegnata nel Sociale. Ringrazio lei e il Maestro Marcello Bronzetti che mi hanno consentito di vivere, nel Pontificio Santuario della Beata Vergine del Santo Rosario di Pompei, una sublime esperienza di musica attraverso l’”Oratorio” sacro: “ExsulteT, Bartolo Longo Cavaliere di Dio”. 
Basilica della Madonna di Pompei 18/10/2019 
L‘opera è il racconto immaginario del Beato Bartolo Longo, guidato da Sant’Elena mentre è in pellegrinaggio verso il mistero dell’annuncio del Cristo Risorto. Il racconto si articola in dieci quadri. Invita allo stupore, alla riflessione, alla conversione.La Corale è composta da cinquanta coristi, fra professionisti e non, che affiancano alla quotidiana attività professionale un progetto di vita proteso all’evangelizzazione, avvalendosi della musica. Ai Coristi si aggiungono 18 orchestrali.Venerdì 18 ottobre scorso, all’esecuzione dell’Oratorio “ExsulteT, Bartolo Longo Cavaliere di Dio”, era presente una delegazione di 25 cavalieri del Santo Sepolcro, proveniente da Terragona, città spagnola gemellata con Pompei.Il Maestro Marcello, assieme ad altri e alla moglie, Tina Vasaturo, violinista, direttore del Coro “Fideles et Amati”, autrice di Aspettando Golapi, è fra gli organizzatori del Festival di Musica Sacra di Cortona, arrivato ormai alla sua 16° edizione. E’ il realizzatore, sempre assieme alla moglie e alla Diocesi di Roma, della Notte Sacra a Roma, supportato dal Vescovo, Mons. Gianrico Ruzza, e dal Vescovo Ausiliare di Roma Centro, don Paolo Ricciardi, già parroco della parrocchia di Santa Silvia a Roma. Così da un sogno è nata una realtà: Roma, culla della Cristianità, la città del Papa, la caput mundi, ha vissuto - come scrive Stefano Stimamiglio su Famiglia Cristiana del 25 maggio 2017 - “tra il 27 e il 28 maggio 2017 un programma fittissimo di preghiera, silenzio e musica” che ha animato misticamente il cuore della città attraverso un percorso sacro ideato per i pellegrini, attesi per l’importante evento. L’iniziativa della Diocesi di Roma e dell’Opera Romana Pellegrinaggi è stata finanziata da un grande centro commerciale della capitale.
Basilica della Madonna di Pompei 18/10/2019 - Esecuzione dell'Oratorio: "ExulteT"

Il MaestroMarcello Bronzetti, dopo la performance a Pompei, ha rilasciato un'intervista al nostro mensile "Il Grande Sorpasso" nelle sale parrocchiali di Santa Silvia in Roma , domenica 20 ottobre 2019
1. Maestro, che cosa rappresenta per Lei la musica; com’è nata questa vocazione? 
La musica è il leit motiv della mia esistenza. La musica ha salvato la mia vita. Essa mi conduce a quel livello metafisico che mi fa comprendere che cos’è la vita. Mi accompagna; non mi lascia mai solo. E’ qualcosa che vive dentro di me, che mi appartiene. In realtà io vivo la musica da quando ero piccolino. Di fatto non ho mai studiato musica. La musica è cresciuta con me. Mi ha accompagnato nei momenti belli e mi ha aiutato in quelli difficili.

2. L’amore per la musica sacra come nasce?
Nasco come cantante e compositore sia in ambito sacro sia laico, pop. La “vocazione” è una chiamata. Sono cresciuto in parrocchia. Ho composto brani sacri. Ho anche tentato la carriera pop, cantautorale, senza grande successo. Di fatto, se guardo indietro alla mia esistenza, mi accorgo che il mio percorso era già segnato. Ad un certo punto mi sono ritrovato a riscoprire la musica sacra e, con Tina e Marco Frisina, ad avvicinarmi al mondo classico.Così ho maturato una vena attraverso cui ho fuso il moderno e il sacro. Inoltre ho iniziato una profonda e accurata ricerca nel mondo della musica sacra, a cui, credo, sono stato condotto attraverso “una chiamata”. Sì, posso affermare di essere stato “condotto” ad essa.

3. Quando si è accorto di poter “osare”, di poter sostituire le “Notti Bianche” romane con la “Notte Sacra”?
In realtà la “Notte Sacra” di Roma nasce figlia della “Notte Sacra” di Cortona; fa parte del Festival della Musica Sacra di Cortona che ormai proponiamo da 16 anni. Scaturisce da un’idea mia, di mia moglie Tina, del Padre Guardiano Daniele Bertaccini, di Walter Checcarelli al fine di organizzare, a conclusione della settimana del Festival, una notte dedicata alla preghiera; una notte che ripercorra le ore della liturgia sacra con dei concerti. Perché? Nelle nostre città ci sono mura e muri che respirano di sacro. Ci sono tante chiese, ricche di memoria. Abbiamo voluto, in tal modo, rivitalizzare il nostro sogno con l’aiuto del Vescovo Ausiliare di Roma Centro, Monsignor Gianrico Ruzza, e del Vescovo Don Paolo Ricciardi. E Roma è la culla naturale per fare rivivere il sogno.

4. Quali sono state le motivazioni che L’hanno spinta a “sfidare” il trend della musica pop? 
Preciso che la “Notte Sacra” non nasce in contrapposizione alle “Notti Bianche”. Poi lo diviene comunque. Le “Notti Bianche” costituiscono un momento di gioia e di felicità e ben vengano! Esse sono pur sempre dono di Dio. La “Notte Sacra” è un modo di vivere la notte. Suggerisce un modo in cui poterla interpretare e vivere, procedendo attraverso un percorso interiore. E’ un pellegrinaggio musicale, spirituale per le strade della città.
Interno della Basilica della Madonna di Pompei 18/10/2019 
Prove d'Orchestra per l'esecuzione dell'Oratorio: "ExulteT" 

5. E’ ormai acclarato il Suo impegno per la riuscita e il successo della “Notte SACRA” a Roma e del pluriennale Festival di Cortona. Ha ulteriori progetti?
Abbiamo appena interpretato a Pompei l’Oratorio: “ExulteT”. Siamo in partenza per la Spagna dove eseguiremo un “Oratorio” su Sant’Agostino in un magnifico convento agostiniano. Andremo prossimamente anche in Terra Santa, a Gerusalemme.

6. Che cos’è e che cosa rappresenta per Lei l’”Oratorio”? 
L’Oratorio nasce con San Filippo Neri nel 1500. Fu successivamente ripreso da Bach e da altri musicisti. Nasce per raccontare le storie di Dio alle persone in modo semplice ed efficace. E’ un potentissimo strumento di evangelizzazione! Tanti autori, lo stesso professor Frisina, hanno percorso questa strada. Oggi l’Oratorio è un’espressione ancora sottovalutata, sia perché comporta una certa comprensione, sia perché espone a dei costi. La nostra è un’operazione non commerciale poiché si basa sull’apporto di volontari che, dopo una giornata di lavoro, si sottopongono a ore e ore di prove. Gli orchestrali, poiché professionisti, sono retribuiti. I coristi sono anche essi professionisti nella vita ma volontari per l’Oratorio. Accade che talvolta essi stessi partecipino alle spese. Ciò sottolinea ulteriormente lo spirito che li anima. Tutto viene vissuto e fatto con fede. E la fede, che anima il Coro e tutto l’Oratorio, traspare nel canto, nella musica che diventano preghiera, gioia. E la fede fa perdonare talora qualche piccolo difetto tecnico.

7. Il Suo “Oratorio” è frutto di ricerca, riflessione, preghiera, ispirazione e composizione. Quali sono i luoghi e i tempi della giornata in cui è ispirato?
Per vivere devo lavorare. Pertanto molte ore della giornata sono impegnate nella mia attività che è una grande opportunità poiché rende liberi. Qualche tempo fa qualcuno mi ha detto che un artista non deve vivere per il pane. In realtà grandi artisti si sono posti a servizio delle Corti. E siamo contenti che ciò sia avvenuto. Non ci hanno privato della loro arte. Quando si è alla corte di qualche Mecenate, tuttavia, si è poco liberi. Specialmente quando si compone la musica sacra. I miei tempi creativi sono molto limitati: tarda sera, notte, sul motorino (mentre vado al lavoro), durante i giorni festivi. L’ispirazione avviene in qualsiasi momento, a tutte le ore, ovunque. E se parliamo di musica sacra è importante rilevare che l’ispirazione avviene in uno stato di preghiera, di riflessione, di ricerca. Un compositore, un artista, può comporre qualsiasi cosa in qualsiasi momento. La qualità e il contenuto fanno la differenza.

8. Le piacerebbe realizzare un Oratorio nella nostra amata terra d’Abruzzo?
Certamente sì! Che domanda è? Per noi ogni invito è dono.


F.to                 Gabriella Toritto 












#"Il Sorpasso di Montesilvano, #Marcello Bronzetti - Diocesi di Roma, #Famiglia Cristiana, #TV2000, #Pontificio Santuario di Pompei
Pubblicato sul numero del 20 aprile 2019 de "Il Sorpasso"

Per riflettere sulla Sanità
Prendo spunto dall’ennesima aggressione al personale sanitario del Pronto Soccorso di Pescara, consumatasi poco più di un mese fa per un’attesa troppo lunga e conclusasi con scontri verbali, fisici e conseguente intervento della Polizia. 
E’ solo uno degli ultimi incidenti occorsi nei luoghi del Servizio Sanitario Nazionale. In questi anni la Sanità va subendo molti tagli a discapito di una popolazione sempre più anziana e in difficoltà economiche.
L’Europa ha lanciato l’allarme sulla mancanza delle risorse e del personale sanitario. Secondo i dati Eurostat - l'Ufficio Statistico dell'Unione Europea - l’Italia nel 2016 aveva 557 infermieri ogni 100.000 abitanti, con una carenza di 50-60mila unità rispetto alla media degli altri maggiori partners UE. Peggio dell’Italia stavano Polonia, Cipro, Ungheria, Bulgaria, Slovenia, Grecia, Croazia e Romania. Commentando tali dati, la Direzione Generale per la salute e la sicurezza alimentare della Commissione europea ha sottolineato la carenza dei professionisti nell'assistenza infermieristica che potrebbe diventare più grave poiché la popolazione continuerà a invecchiare e una percentuale alta di infermieri andrà prossimamente in pensione. Le nuove norme prevedono la fuoriuscita degli infermieri dipendenti del SSN dal mondo del lavoro secondo “Quota 100” (calcolata in base agli anni di anzianità lavorativa e all’età anagrafica) che decimerà gli organici. Si prevedono da subito oltre 22mila infermieri in meno".

Non va meglio con il personale medico. Entro pochissimi anni andranno in pensione 52mila professionisti. Mancheranno soprattutto pediatri, specialisti d'emergenza-urgenza, anestesisti e internisti. Secondo Anaao Assomed “Le condizioni di lavoro nei reparti ospedalieri e nei servizi territoriali stanno rapidamente degradando. Il blocco del turnover, introdotto con la Legge n. 296 del 2006, ha determinato una carenza nelle dotazioni organiche di circa 10 mila medici. I piani di lavoro, i turni di guardia e di reperibilità vengono coperti con crescenti difficoltà …”.

Ancora il sindacato dei medici denuncia: “Quindici milioni di ore di straordinario non pagate, numero di turni notturni e festivi pro-capite in crescita, fine settimana quasi sempre occupati tra guardie e reperibilità, difficoltà a poter godere perfino delle ferie maturate rappresentano gli elementi su cui si fonda oggi la sostenibilità organizzativa ed economica degli ospedali italiani”. Nelle corsie ospedaliere mancano siringhe, medicinali a fronte dei “bonus” percepiti, oltre al proprio elevato reddito, dagli alti dirigenti per la produttività aziendale. Alcuni mesi fa il Codacons di Catania ha annunciato un esposto alla Procura e alla Corte dei Conti: «Perché premiarli, visti i disservizi negli ospedali?»

L’articolo 32, comma 1, della Costituzione italiana recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.”

Il contenuto del diritto che la Costituzione riconosce a tutti è complesso: il benessere psico-fisico, inteso in senso ampio, con cui s’identifica il bene “salute” si traduce nella tutela costituzionale dell’integrità psico-fisica, del diritto a un ambiente salubre, del diritto alle prestazioni sanitarie e della cosiddetta libertà di cura. Il diritto alla salute è fondamentale ed è tutelato anche dall’art. 2 della Costituzione: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”
Essendo poi intimamente connesso con il valore della dignità umana, l’art. 2 rientra nella previsione dell’art. 3 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Nella realizzazione del dettato costituzionale, tuttavia, i legislatori, i politici devono contemperare gli interessi connessi alla salute con quelli legati alla sostenibilità finanziaria del sistema Italia. Il diritto alla salute, quindi, deve essere bilanciato con il principio della regolarità dei conti pubblici, anch’esso costituzionalmente previsto nell’art. 81 e implicito nell’art. 97. E’ chiaro che lo Stato deve mirare ad avere i conti in ordine per potersi “permettere” di spendere nei settori di rilievo sociale. Il rispetto della regolarità finanziaria è anche funzionale all’impegno continuo dello Stato nel settore sanitario. E i conti sono legati alle entrate. E fra le entrate vi sono le imposte, le tasse, che vanno pagate. Molti cittadini purtroppo non ottemperano ai propri doveri. E’ pur vero che ci sono famiglie che non hanno sufficienti risorse economiche.
La Costituzione Italiana, all'art.53, fissa il principio della capacità contributiva secondo il quale “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”, cioè in base al proprio reddito.
Con il gettito delle entrate lo Stato finanzia i servizi pubblici di cui beneficiamo: l’Istruzione; il Sistema Sanitario Nazionale; le Forze dell’Ordine; la Giustizia ed altri servizi.
Fenomeni di evasione o elusione fiscale tendono invece a ridurre il gettito previsto, a danno dello Stato. Ne conseguono l’aumento del deficit pubblico e del debito e l’inevitabile diminuzione della spesa a vantaggio dei servizi ai cittadini.

F.to Gabriella Toritto

FONTI:
Il Centro di Pescara,mercoledì, 27 marzo 2019
S.I.G.M., Incontro con il Ministero della Salute 30/08/2018
Anaao.it
www.sudpress.it/denuncia-del-codacons-alla-procura-premi-erogati-dirigenti-asp-cata.
https://www.nurse24.it/infermiere/ordine/carenza-infermieri-allarme-ue-servono-piu-i..
www.fnopi.it/.../l-europa-lancia-l-allarme-carenza-piu-infermieri-per-la-nuova-demog.
www.quotidiano sanita.it, 07/01/2019





Pubblicato sul numero del 30 aprile 2019

La Storia, la Modernità e il Treno Intervista a Renzo GALLERATI

Tutti lo conoscono. Chi sia Renzo Gallerati lo sanno tutti: uomo politico, ancora giovanissimo è stato sindaco della città di Montesilvano.
E’ cultore della bella musica, della Memoria, della politica intesa come servizio e, poiché politico, attesta quotidianamente il suo impegno a servizio della comunità cui appartiene.
La città di Montesilvano riconosce a lui e alla benemerita ACAF, l’Associazione Culturale Amatori Ferrovieri, il merito del forte legame con la Comunità d’appartenenza.
Ha coltivato nel tempo una grande passione: il treno. Ci ha creduto e ha realizzato, assieme ad altri cultori ferrovieri, l’allestimento del Museo del Treno dell’Adriatico. Un altro museo è di Campo Marzio a Trieste, ricco di cimeli austroungarici, adesso chiuso per restauro e valorizzazione.
L’ACAF, a sua volta, si avvale di volontari che mantengono viva la memoria di un Paese, l’Italia, che, come altri al mondo, ha conosciuto la crescita, l’evoluzione tecnologica, economica e sociale attraverso la “via ferrata”.
La ferrovia è stata, suo malgrado, testimone storico delle deportazioni degli anni ’40 nello scorso secolo, quando carri-merci, usati come “tradotte”, trasportavano uomini, donne, bambini nei lager della 2° Guerra mondiale. Ebbene nel Museo del Treno a Montesilvano sono conservati alcuni di quei vagoni.
Fra poco il Museo del Treno rievocherà il 90° anniversario del tracciato ferroviario Pescara-Penne (1929-2019), riprodotto in scala per la felice fruizione delle scolaresche invitate a visionarlo nel coevo bagagliaio DI- 90052 del Museo.
Assieme all’ACAF, l’ex sindaco commemorerà il fatidico 25 aprile 1945, anniversario della Liberazione, giorno dalla portata storica per i valori di libertà e di democrazia di cui è portatore. Con l’esposizione di due automobili, mezzi storici di Collezioni Private “Forze dell’Ordine”, si intenderà ricordare le febbrili, convulse, drammatiche ore del 25 aprile 1945, che accompagnarono la liberazione dell’Italia, a guerra quasi conclusa.
Importante e condiviso dalla città di Montesilvano è l’allestimento della Teca in vetro, che dovrebbe essere finanziato in sinergia con la Fondazione FS Italiane, la Fondazione Pescara-Abruzzo, una Multinazionale del Vetro, per la realizzazione del Museo-Auditorium coperto. La Teca in vetro sarà a protezione della storia del sito, delle radici della Comunità.

Quelle avviate da Renzo Gallerati e dall’ACAF sono tutte iniziative di ampio respiro per cui la città prova molta gratitudine. Esse valorizzano il territorio, lo rendono vivo, lo sottraggono all’incuria e al degrado, come ha osservato il Direttore Generale di Fondazione FS Italiane, l’Ingegnere Luigi Cantamessa. Inoltre rispondono pienamente alla Strategia Europea 2020, agli obiettivi per una politica di coesione, per lo sviluppo del trasporto sostenibile, dell’economia a bassa emissione di carbonio ai fini di una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva.
La valorizzazione del sito ferroviario di Montesilvano, stimolata dalle scelte di Renzo Gallerati assieme ad altri partners, ed effettuata attraverso esperienze artistiche e culturali e attraverso l’incontro fra persone, ravviva il tessuto sociale, favorisce il rispetto dell’habitat e delle strutture esistenti. Ne consegue che ogni cittadino si sentirà di proteggere e rispettare il patrimonio che gli appartiene, che corrisponde al patrimonio, alla bellezza, all’igiene della città.
Altro progetto a cuore del dottor Gallerati è l’attivazione della Navetta storica Montesilvano-Sulmona verso la “Transiberiana d’Italia”, che favorirà, attraverso un “pacchetto turistico”: Mare-Monti, la scoperta del territorio, della sua storia, dell’eno-gastronomia, delle tradizioni artigianali e popolari, passando per Roccaraso, Campo di Giove fino a Pescocostanzo.

L’INTERVISTA
D.: Lei, Dottor Gallerati, pensa che il progetto della Transiberiana d’Italia potrà partire già da quest’estate?
R.: Ci sono delle procedure da espletare, vi sono delle norme da rispettare. Abbiamo in calendario degli incontri con altri attori del progetto, in particolare con la Regione Abruzzo, nella persona dell’assessore Febbo, per il finanziamento dell’1% che le Regioni possono destinare ai progetti sui Beni Storici. I treni ci sono. Sono già stati cantierati. L’iniziativa si avvale solo in minima parte del finanziamento pubblico. Il resto si basa su sovvenzioni private. La Lombardia, il Piemonte, la Toscana, la Sicilia con il grande successo della “Ferrovia dei Templi” hanno avviato da tempo la riscoperta in chiave turistica di spettacolari linee ferroviarie italiane e di borghi ricchi di storia e di arte. “Binari senza tempo” è il grande progetto di Fondazione FS Italiane e del suo Direttore, l’ing. Cantamessa. Se per ragioni di tempo non sarà possibile inaugurare la Navetta Mare-Monti per l’estate, sarà certa per la stagione autunno-inverno.

D.: Come socio-cofondatore del Museo del Treno, Lei, dottor Gallerati ha preferito la politica dei “piccoli passi” nella valorizzazione del sito storico-ferroviario di Montesilvano. Quali altri impulsi pensa di dare al Museo nel prossimo futuro?
R.: Montesilvano ha una cronica esigenza di spazi ricreativi. Abbiamo realizzato Palazzo Baldoni con la Sala Polifunzionale, la Sala Congressi, il Museo del Treno, dove si sta svolgendo l’intervista e luogo in cui sono cresciuto. Vorremmo, su progetto dell’architetto Volpe, realizzare la Teca, struttura polifunzionale, anche in previsione del teatro, dotata di impianto fotovoltaico per l’alimentazione energetica. La Teca dovrebbe essere costruita in vetro con capriate di acciaio, grazie ai contributi della Fondazione FS Italiane, della Fondazione Pescara-Abruzzo, del Comune di Montesilvano. Sarebbe edificato là dove esisteva il manufatto ligneo che l’11 ottobre del 1943 esplose assieme ai vagoni in un’incursione aerea.

D.: L’opera interattiva “Immi” dell’artista Fabrizi, inaugurata da poco, fa pensare alla Street Art. Impreziosisce l’ingresso alla stazione e invia un messaggio di alto profilo umano e culturale che si lega al termine “viaggio” in tutte le sue accezioni. Lei pensa che i cittadini, in particolare i giovani, possano assieme al Museo del Treno, alla Fondazione FS Italiane, agli Enti locali, concorrere in un programma di valorizzazione dei luoghi circostanti la stazione? Penso a dei concorsi da bandire attraverso il mensile “Il Sorpasso” per la realizzazione di murales e/o pannelli nei sottopassi del Centro cittadino che meriterebbero anche migliore illuminazione se non delle telecamere.
R.: Certo! Possono essere realizzati pannelli, murales. Si pensi ai murales e al sottopasso di via Michelangelo a Pescara che rievocano fra l’altro la “Coppa Acerbo”.

D.: A Suo avviso e alla luce della Sua esperienza, che cosa bisogna fare per preservare il patrimonio storico-ferroviario e la grande memoria di cui è depositario, per evitarne l’oblio, com’è successo ad altri siti?
R.: Bisogna renderlo vivo. Vorrei in questo luogo momenti di incontro, di dibattito, di confronto fra giovani e con i giovani. Non è bello vedere la gioventù persa. Desidererei qui un luogo dove vedere maturare una consapevolezza, una coscienza civica, sociale. Auspicherei qui un luogo di incontro per realizzare una staffetta fra generazioni. Ricordo che sono cresciuto qui. All’età di quattro anni guardavo con stupore il Capostazione. Mi sembrava potentissimo. Ai miei occhi era l’uomo che consentiva l’apertura al mondo. Egli determinava quando far partire uomini, merci, bestiame. Il Capostazione, unico al mondo ad avere il berretto rosso, emanava l’aura di colui che faceva girare il mondo, che decideva il destino di genti che si dischiudevano al viaggio! Ho discusso due tesi in Economia dei Trasporti sulla storia della Ferrovia. Per me la ferrovia è sempre stata avvolta da un alone di romanticismo. Prima del treno vi erano il cavallo, la carrozza. A Montesilvano c’era la parte alta, dove il signorotto Delfico deteneva il Comune a casa sua. Nel 1919 le automobili erano poco più di una. Le carrozze, ossia le “vetture” trainate dai cavalli, appartenevano al notabilato latifondista locale, di provenienza teramana. Con la ferrovia arriva il mezzo di trasporto che muove le masse. La modernità e la progressiva evoluzione urbana ed economica arrivano con il treno. La città moderna nasce con l’arrivo della locomotiva. La città si è evoluta con la stazione. I giovani devono, pertanto, conoscere la storia dei loro avi e forse il Museo del Treno consente loro la scoperta di un mondo a cui pur sempre appartengono, apparteniamo tutti.

D.: La Fondazione FS Italiane ha avuto un ruolo determinante in ciò che è stato realizzato finora?
R.: La Fondazione FS Italiane è la vera Treccani della Ferrovia italiana. La Fondazione è il baluardo di una grande storia. Tutto ciò che oggi è del Museo del Treno, un giorno tornerà alla Fondazione.

D.: uale ruolo ha avuto l’Europa, secondo Lei, nella riqualificazione e nella valorizzazione dei nostri siti abbandonati?QQuale ruolo, secondo Lei, ha avuto l’Europa nella valorizzazione dei siti abbandonati?
R.: L’Europa si costruisce su relazioni e su corridoi. Si ricordi il discorso tenuto da Cavour a Palazzo Carignano, a Torino, allora sede del Parlamento Subalpino. Nell’estate del 1857 Camillo Benso, conte di Cavour, dovette difendere la costruzione del traforo del Frejus contro le critiche degli oppositori, dei detrattori. Questi ultimi sostenevano che il tunnel fosse un’opera speculativa a vantaggio delle parti coinvolte nella sua realizzazione. L’Europa si costruisce attraverso le relazioni, i corridoi e i flussi economici che per quei corridoi passano. Oggi Val di Susa vanta una preziosità ambientale. Dobbiamo tuttavia stare in quel corridoio di flussi. A molti piacerebbe che ne rimanessimo fuori per occupare il nostro posto e fare loro gli affari. Il tratto da Ancona a Pescara fu finito in due anni, dal 1861 al 1863, grazie all’inarrestabile lavoro di uomini di grande volontà. Nel ‘900 attraverso la ferrovia che collegava Londra a Bombay e che passava per Silvi, Montesilvano, Castellammare, abbiamo conosciuto la lingua inglese. Prima di allora si conoscevano solo il francese e lo spagnolo. Intorno alle primissime stazioni ferroviarie scoppiò una vivacità urbana mai vista. Arrivarono i primi opifici, le prime fabbriche, gli alberghi, i negozi. Anche i luoghi deputati all’amministrazione dei borghi iniziarono a scendere a valle, come ad esempio a Montesilvano. L’impresa fu eroica, dato il lavoro immane che comportò e la situazione da cui si partiva. Era il dopoguerra. C’era la ricostruzione.


F.to                Gabriella Toritto


Montesilvano, lì 14/04/2019
Pubblicato a marzo 2019 su "Il Sorpasso"

A che punto è la Scuola?
Nelle ultime settimane diversi sono stati gli episodi di cronaca nera imputabili ad adolescenti, coinvolti in atti da codice penale.

Molti si chiedono: Le famiglie dove sono? La scuola che cosa insegna? Ma esiste ancora la scuola?

La scuola di un tempo, dove i ruoli erano rispettati, dove l’insegnante era l’Insegnante e dove la famiglia non interferiva nelle dinamiche che si consumavano all’interno delle classi, confidando nelle decisioni del maestro, non esiste più.

Oggi a scuola molti giovani non vogliono impegnarsi. Studiare costa sacrificio: ore e ore seduti e concentrati a leggere, comprendere, memorizzare. La posizione statica e la concentrazione che lo studio richiede non si confanno a giovani che non riescono a stare fermi, che sono in preda alle pulsioni, né vogliono apprendere.

Molti sono gli studenti che presentano a scuola scarsa autocensura e che si distinguono per un turpiloquio generalizzato, al di là del genere. Gli adulti non sono da meno. Sembra ormai che la parolaccia sia stata proprio sdoganata.

Nella speranza di essere ancora in tempo per modificare qualcosa, a mio avviso urge una revisione dell’istituzione Scuola. Così come è gestita, fatte le dovute eccezioni, non può che tradire completamente il fine educativo che le appartiene e fare ricadere sulla società il proprio fallimento.

Tanti sostengono che la scuola sia influenzata dai poteri forti, quali l’economia, la finanza. E’ probabile, poiché oggi si presta maggiore attenzione a formare il “lavoratore” piuttosto che l’individuo. La realtà, tuttavia, evidenzia che la scuola non è in grado di formare né il lavoratore, né l’individuo. Il “lavoratore” non si forma con l’alternanza scuola-lavoro. E l’allievo non viene formato come “Uomo”. Alla società occorrono innanzi tutto veri uomini prima che bravi meccanici, idraulici, ingegneri, medici. Se nell’individuo non c’è l’”Uomo” allora avremo, come accade molto spesso, manager capaci dell’esercizio più sadico del potere con i propri sottoposti. Gli esiti di tali condotte ricadono inevitabilmente sulla società tutta.

A scuola la formazione non coincide con l’istruzione. L’istruzione è il “passaggio” di contenuti mentali da una testa all’altra. L’educazione, invece, è cura della formazione del sentimento di una persona. Il sentimento si impara, è un contenuto culturale. Il sentimento è diverso dalle pulsioni.

Dai fatti di cronaca e da quanto accade nelle scuole si assiste a giovani che non conoscono la risonanza emotiva dei propri sentimenti. Per loro non c’è differenza fra insultare un professore o prenderlo a calci, fra corteggiare una ragazza o violentarla. Molti giovani non hanno la risonanza emotiva di una differenza reale. Sono privi di sentimenti. I sentimenti non si hanno in natura, sono culturali, si imparano in famiglia, così come sono stati appresi anticamente dalle tribù primitive che raccontavano miti, dalle nonne che raccontavano storie per insegnare la differenza fra il Bene e il Male, fra le cose giuste e le cose ingiuste.

Gli stessi miti greci offrivano una galleria di sentimenti, di passioni rappresentate da divinità come Zeus, il potere, Atena, l’intelligenza, Apollo, la bellezza, Dioniso, la follia. Ai nostri tempi, purtroppo, non ci sono più i miti, e nelle scuole si dà poca importanza alla Letteratura, la quale ci insegna l’amore in tutte le sue declinazioni. Ci narra il dolore, la tragedia, la disperazione, la noia. Se un giovane non impara a conoscere tali condizioni di sofferenza, come farà a riconoscere e gestire i propri stati d’animo? Accade quindi che, come sostiene il professor Galimberti, filosofo e psicologo, il giovane sta male e non sa spiegarne la causa, poiché “non possiede il vocabolario dell’apparato sentimentale”. E, se uno è privo di sentimenti, può commettere qualsiasi azione, come i bulli che, non possedendo un linguaggio, si esprimono con i gesti.

La società contemporanea ha imposto l’apprendimento del linguaggio informatico che trova ampio consenso a discapito della letteratura, della lettura. Generalmente in classe leggono due o tre studenti, gli altri sostengono le interrogazioni ricavando qualche informazione da Google. Diversi sono gli studenti che non sanno sfogliare un dizionario, altri non comprendono un testo scritto, altri ancora non sanno che dopo il punto ci vuole la maiuscola. C’è chi non sa scrivere in corsivo! Si assiste a un analfabetismo di ritorno.
L’informatica concorre a ciò, riducendo il linguaggio a poche parole. Sempre il professore Galimberti afferma che “se si hanno poche parole in bocca, non si hanno tanti pensieri in testa, poiché i pensieri sono proporzionati alle parole che si possiedono”. Dunque se ho poche parole, penso poco. E, quando un Popolo pensa poco ed è incolto, come noi Italiani, allora quel popolo perde su tutti i fronti, soprattutto sul fronte economico e storico, oltre che sociale e politico.

La scuola fino ai 18 anni dovrebbe essere luogo di formazione dell’Uomo, a prescindere dagli indirizzi di studio intrapresi. Senza l’Uomo la società è persa. Invece oggi si presta attenzione alla cultura della “prestazione”. Anche nei licei non si svolgono più i temi, sostituiti da prove sulla comprensione di un testo scritto. Galimberti vede in tale scelta la cancellazione del valore della soggettività del tema che, a quanto pare, alla scuola non interessa poiché la società esige solo prestazioni.

F.to    Gabriella Toritto