Giosué Carducci (terza parte)
Dopo la morte di
Lidia (Carolina Cristofori Piva), il cinquantacinquenne Giosuè, nonostante la
paresi della mano destra, che lo aveva colpito nel 1885, si sentiva ancora vivo
e pronto ad assaporare un nuovo soffio di giovinezza. Il 5 dicembre 1889 la
ventenne poetessa Annie Vivanti si rivolgeva a lui con queste parole «Audacies
fortuna iuvat», per chiedergli di
leggere i suoi versi. Carducci rispose e fissò un incontro. Subito entusiasta
di quelle poesie, il 19 febbraio 1890 inviava ad Annie una lettera che sarebbe
divenuta la prefazione alla Lirica di Annie Vivanti , 1886-1890 (Treves,
Milano 1890).
Nel giugno 1882
Carducci perdeva il secondo padre: Giuseppe Garibaldi e ne improvvisava la
commemorazione Per la morte di Giuseppe Garibaldi, scrivendo dell’uomo
da lui «più adorato […] tra i vivi»: «Tal qual fu […] [egli] è il più
popolarmente glorioso degl’italiani moderni, forse perché riunì in sé le
qualità molteplici della nostra gente, senza i difetti e i vizi che quelle
rasentano o esagerano o mèntono».. Nel 1880 gli aveva dedicato una «barbara»
in cui l’eroe, nella sconfitta, si sentiva tutt’altro che vinto, giacché sapeva
che la storia era dalla sua parte.
Nel dicembre 1882,
Carducci si schierò apertamente di fronte ad un episodio che fece discutere: a
settembre il patriota Guglielmo Oberban, accusato di aver attentato alla vita
dell’imperatore d’Austria, era stato arrestato e giustiziato con l’impiccagione.
Victor Hugo, «il grande poeta», ne aveva assunto la difesa, e da Bologna
il professor Carducci aveva ribadito che il cospiratore non era un condannato,
ma un «confessore e un martire della religione della patria» nella
rivendicazione dell’italianità di Trento e Trieste, colpevolmente ignorata dal
governo di Roma.
Nel 1883 si
riaccesero gli scontri all’interno della Sinistra parlamentare. In quel clima
Carducci si legò a Francesco Crispi, combattente garibaldino, eroe dei Mille,
presidente della Camera nel biennio 1876-77, e ad Adriano Lemmi, già membro,
dal 1877, della Commissione per la restaurazione delle finanze del Grande
Oriente, Gran Maestro aggiunto dopo la morte di Giuseppe Garibaldi e Gran
Maestro dal 1885.
Il 12 giugno 1888,
per l’ottavo centenario dell’Alma Mater Studiorum, Carducci tenne nel cortile
dell’Archiginnasio, alla presenza dei Reali (il Re V. E. III e la regina
Margherita, grande estimatrice del poeta) e di oltre trecento rappresentanti delle
università di tutto il mondo, un discorso che Gabriele d’Annunzio ritenne : «tra
le più mirabili prose di tutta quanta la letteratura nostra per magnificenza di stile, per
grandiosità di pensiero» e «finezza di sentimento».
Quell’«altissima festa dello spirito», come la stampa laica romana
definì l’evento, fu un trionfo per l’Università di Bologna e per il professor
Carducci che più di ogni altro l’aveva rappresentata: Giosuè vedeva
definitivamente consacrata la sua fama europea e internazionale. Con essa,
anche Bologna e la sua Università venivano ad essere di nuovo al centro, come
lo furono nei secoli, dell’incivilimento della cultura d’Europa.
Il 10 dicembre
1906 Giosuè Carducci ricevette il premio Nobel per la letteratura: aveva
cantato l’Italia e saldato l’antichità classica greco latina con i valori
dell’Europa contemporanea. Così si rese onore al professore, al poeta Carducci,
alla sua voce europea, che aveva iniziato a diffondersi in Occidente e avrebbe
continuato a farlo ben oltre le atmosfere della Montagna incantata.
Il Premio Nobel,
conferito a Carducci, era il tributo e il sigillo a favore di un vita, quella
del grande poeta, dedicata totalmente alla letteratura, alla civiltà italiana
ed europea, nel silenzio e nel giubilo, ormai al crepuscolo della propria
coscienza di uomo.
L’11 settembre
1855, quando ancora il giovane poeta di Valdicastello doveva approdare alla sua
prima esperienza d’insegnante a San Miniato al Tedesco, Niccolò Tommaseo, che vigilava
sulla produzione letteraria toscana, non mancò di scrivere al Vieusseux:
«Chi è quel Carducci che fa quelle note a Virgilio, dove i raffronti delle
traduzioni diventano un bel commento?». Vieusseux, padre dell’ Antologia,
così gli rispondeva: «Il Carducci di cui mi domandate è un giovane che non
ha ancora 18 anni compiti, figlio di un medico di provincia, protetto ed amato
dal bravo Thouar il quale lo avviò agli studi, lo preparò per gli esami, gli
avanzò (lui povero) ciò che gli occorreva per fare i suoi corsi universitari a
Pisa: giovane ancora rozzo e senza mondo, ma che ha fatto esami stupendi, e che
promette assai, moltissimo, pel futuro. Dio voglia conservarlo per l’onore
delle lettere italiane. Egli è presentemente in Provincia presso suo padre
ad assistere i colerosi come segretario di una commissione di soccorsi.
S’egli campa farà parlar di sé». E così fu.
Carducci insegnò
all’Università di Bologna per più di quarant’anni. Furono anni di grandi
battaglie politiche, ma anche di uno studio intenso e fruttuoso, che lo assorbì
quasi totalmente. L’obiettivo principale del magistero carducciano fu quello di
formare una nuova classe di insegnanti preparati e pronti a far fronte alle
esigenze culturali e linguistiche della nascente nazione italiana, della quale
non a torto Carducci fu considerato l’educatore. Secondo Carducci era necessario distribuire sul territorio maestri
che educassero i cittadini “uno a uno”, uniformando i saperi e
rafforzando il senso civico, per ispirare e rafforzare il sentimento di
appartenenza ad un medesimo Stato. Su suggerimento dell’amico Emilio Teza, Carducci
era solito scrivere le sue lezioni, preparate meticolosamente, levandosi prima
dell’alba affinché tutto fosse pronto al suo ingresso in aula.
Dopo un anno di
esonero dall’insegnamento per l’aggravarsi delle precarie condizioni di salute,
Carducci salì nuovamente in cattedra per tenere quelli che sarebbero stati gli
ultimi corsi della sua lunga carriera. Nel mese di novembre del 1904 scrisse
una lettera al Ministro della Pubblica Istruzione, Orlando, chiedendo di essere
finalmente collocato a riposo.
Carducci sentì per
Pascoli l’affetto paterno che lo legò a coloro che erano stati suoi scolari. L’Epistolario
documenta il sollecito interessamento presso ministri, direttori generali,
provveditori agli studi per le aspirazioni, per i bisogni, per i diritti,
insomma per la carriera dei giovani che ricorrevano all’aiuto del loro grande
Maestro. E Pascoli fruì più volte di tale aiuto. Senza dubbio, nei
confronti di Pascoli, l’affetto paterno si mutava in una specie di accorata
tenerezza per il temuto traviamento di quel povero figliuolo. Fra il professore
e l’allievo vi fu tuttavia sempre un certo disagio, che rese più volte
opportuna l’attenta e garbata mediazione di Severino, di cui Carducci si servì anche
per comunicare a Pascoli il conferimento della Cattedra.
Pascoli ricevette il paterno investimento della
cattedra carducciana con la visita reverente e affettuosa alla casa del Maestro, il giorno stesso
della prolusione. Carducci si alzò dalla poltrona per abbracciarlo
lungamente, e piangeva di santa tenerezza.
Quell’accoglienza fu il compenso che Giovannino
Pascoli aveva sognato per i patimenti e
il lavoro profusi.
Carducci aveva della letteratura e dell’arte
un concetto alto, nobilissimo, essa non poteva essere vacua esercitazione di
stile ma espressione di sentimento e pensiero. I soggetti trattati hanno tuttora importanza
civile, patriottica, umana. Nell’opera di Carducci vive un mondo intero; un
mondo di memorie storiche grandiose, di glorie ed eroismi patrii, di
aspirazioni a ideali di verità e giustizia. E se Dante descrisse a fondo tutto
l’universo, così Carducci ha raccolto tutto quanto di più nobile e alto può
infiammare e commuovere la mente e il cuore; tutto al fine di concorrere
all’elevazione morale, politica, intellettuale della patria.
FONTI: CARDUCCI, VITA
E LETTERATURA. DOCUMENTI, TESTIMONIANZE, IMMAGINI
A cura di Marco
VEGLIA
Casa Carducci
Bologna
Casa Ed. Rocco
Carabba
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