giovedì 23 aprile 2020

Giosué Carducci (terza parte)
Dopo la morte di Lidia (Carolina Cristofori Piva), il cinquantacinquenne Giosuè, nonostante la paresi della mano destra, che lo aveva colpito nel 1885, si sentiva ancora vivo e pronto ad assaporare un nuovo soffio di giovinezza. Il 5 dicembre 1889 la ventenne poetessa Annie Vivanti si rivolgeva a lui con queste parole «Audacies fortuna iuvat»,  per chiedergli di leggere i suoi versi. Carducci rispose e fissò un incontro. Subito entusiasta di quelle poesie, il 19 febbraio 1890 inviava ad Annie una lettera che sarebbe divenuta la prefazione alla Lirica di Annie Vivanti , 1886-1890 (Treves, Milano 1890).
Nel giugno 1882 Carducci perdeva il secondo padre: Giuseppe Garibaldi e ne improvvisava la commemorazione Per la morte di Giuseppe Garibaldi, scrivendo dell’uomo da lui «più adorato […] tra i vivi»: «Tal qual fu […] [egli] è il più popolarmente glorioso degl’italiani moderni, forse perché riunì in sé le qualità molteplici della nostra gente, senza i difetti e i vizi che quelle rasentano o esagerano o mèntono».. Nel 1880 gli aveva dedicato una «barbara» in cui l’eroe, nella sconfitta, si sentiva tutt’altro che vinto, giacché sapeva che la storia era dalla sua parte.
Nel dicembre 1882, Carducci si schierò apertamente di fronte ad un episodio che fece discutere: a settembre il patriota Guglielmo Oberban, accusato di aver attentato alla vita dell’imperatore d’Austria, era stato arrestato e giustiziato con l’impiccagione. Victor Hugo, «il grande poeta», ne aveva assunto la difesa, e da Bologna il professor Carducci aveva ribadito che il cospiratore non era un condannato, ma un «confessore e un martire della religione della patria» nella rivendicazione dell’italianità di Trento e Trieste, colpevolmente ignorata dal governo di Roma.
Nel 1883 si riaccesero gli scontri all’interno della Sinistra parlamentare. In quel clima Carducci si legò a Francesco Crispi, combattente garibaldino, eroe dei Mille, presidente della Camera nel biennio 1876-77, e ad Adriano Lemmi, già membro, dal 1877, della Commissione per la restaurazione delle finanze del Grande Oriente, Gran Maestro aggiunto dopo la morte di Giuseppe Garibaldi e Gran Maestro dal 1885.
Il 12 giugno 1888, per l’ottavo centenario dell’Alma Mater Studiorum, Carducci tenne nel cortile dell’Archiginnasio, alla presenza dei Reali (il Re V. E. III e la regina Margherita, grande estimatrice del poeta)  e di oltre trecento rappresentanti delle università di tutto il mondo, un discorso che Gabriele d’Annunzio ritenne : «tra le più mirabili prose di tutta quanta la letteratura nostra  per magnificenza di stile, per grandiosità di pensiero» e «finezza di sentimento». Quell’«altissima festa dello spirito», come la stampa laica romana definì l’evento, fu un trionfo per l’Università di Bologna e per il professor Carducci che più di ogni altro l’aveva rappresentata: Giosuè vedeva definitivamente consacrata la sua fama europea e internazionale. Con essa, anche Bologna e la sua Università venivano ad essere di nuovo al centro, come lo furono nei secoli, dell’incivilimento della cultura d’Europa.
Il 10 dicembre 1906 Giosuè Carducci ricevette il premio Nobel per la letteratura: aveva cantato l’Italia e saldato l’antichità classica greco latina con i valori dell’Europa contemporanea. Così si rese onore al professore, al poeta Carducci, alla sua voce europea, che aveva iniziato a diffondersi in Occidente e avrebbe continuato a farlo ben oltre le atmosfere della Montagna incantata.
Il Premio Nobel, conferito a Carducci, era il tributo e il sigillo a favore di un vita, quella del grande poeta, dedicata totalmente alla letteratura, alla civiltà italiana ed europea, nel silenzio e nel giubilo, ormai al crepuscolo della propria coscienza di uomo.
L’11 settembre 1855, quando ancora il giovane poeta di Valdicastello doveva approdare alla sua prima esperienza d’insegnante a San Miniato al Tedesco, Niccolò Tommaseo, che vigilava sulla produzione letteraria toscana, non mancò di scrivere al Vieusseux: «Chi è quel Carducci che fa quelle note a Virgilio, dove i raffronti delle traduzioni diventano un bel commento?». Vieusseux, padre dell’ Antologia, così gli rispondeva: «Il Carducci di cui mi domandate è un giovane che non ha ancora 18 anni compiti, figlio di un medico di provincia, protetto ed amato dal bravo Thouar il quale lo avviò agli studi, lo preparò per gli esami, gli avanzò (lui povero) ciò che gli occorreva per fare i suoi corsi universitari a Pisa: giovane ancora rozzo e senza mondo, ma che ha fatto esami stupendi, e che promette assai, moltissimo, pel futuro. Dio voglia conservarlo per l’onore delle lettere italiane. Egli è presentemente in Provincia presso suo padre ad assistere i colerosi come segretario di una commissione di soccorsi. S’egli campa farà parlar di sé». E così fu.
Carducci insegnò all’Università di Bologna per più di quarant’anni. Furono anni di grandi battaglie politiche, ma anche di uno studio intenso e fruttuoso, che lo assorbì quasi totalmente. L’obiettivo principale del magistero carducciano fu quello di formare una nuova classe di insegnanti preparati e pronti a far fronte alle esigenze culturali e linguistiche della nascente nazione italiana, della quale non a torto Carducci fu considerato l’educatore. Secondo Carducci era  necessario distribuire sul territorio maestri che educassero i cittadini “uno a uno”, uniformando i saperi e rafforzando il senso civico, per ispirare e rafforzare il sentimento di appartenenza ad un medesimo Stato. Su suggerimento dell’amico Emilio Teza, Carducci era solito scrivere le sue lezioni, preparate meticolosamente, levandosi prima dell’alba affinché tutto fosse pronto al suo ingresso in aula.
Dopo un anno di esonero dall’insegnamento per l’aggravarsi delle precarie condizioni di salute, Carducci salì nuovamente in cattedra per tenere quelli che sarebbero stati gli ultimi corsi della sua lunga carriera. Nel mese di novembre del 1904 scrisse una lettera al Ministro della Pubblica Istruzione, Orlando, chiedendo di essere finalmente collocato a riposo.
Carducci sentì per Pascoli l’affetto paterno che lo legò a coloro che erano stati suoi scolari. L’Epistolario documenta il sollecito interessamento presso ministri, direttori generali, provveditori agli studi per le aspirazioni, per i bisogni, per i diritti, insomma per la carriera dei giovani che ricorrevano all’aiuto del loro grande Maestro. E Pascoli fruì più volte di tale aiuto. Senza dubbio, nei confronti di Pascoli, l’affetto paterno si mutava in una specie di accorata tenerezza per il temuto traviamento di quel povero figliuolo. Fra il professore  e l’allievo vi fu  tuttavia  sempre un certo disagio, che rese più volte opportuna l’attenta e garbata mediazione di Severino, di cui Carducci si servì anche per comunicare a Pascoli il conferimento della Cattedra.
Pascoli ricevette il paterno investimento della cattedra carducciana con la visita reverente e affettuosa alla casa del Maestro, il giorno stesso della prolusione. Carducci si alzò dalla poltrona per abbracciarlo lungamente, e piangeva di santa tenerezza.
Quell’accoglienza fu il compenso che Giovannino Pascoli aveva sognato per  i patimenti e il lavoro profusi.
Carducci aveva della letteratura e dell’arte un concetto alto, nobilissimo, essa non poteva essere vacua esercitazione di stile ma espressione di sentimento e pensiero. I soggetti trattati hanno tuttora importanza civile, patriottica, umana. Nell’opera di Carducci vive un mondo intero; un mondo di memorie storiche grandiose, di glorie ed eroismi patrii, di aspirazioni a ideali di verità e giustizia. E se Dante descrisse a fondo tutto l’universo, così Carducci ha raccolto tutto quanto di più nobile e alto può infiammare e commuovere la mente e il cuore; tutto al fine di concorrere all’elevazione morale, politica, intellettuale della patria.

FONTI: CARDUCCI, VITA E LETTERATURA. DOCUMENTI, TESTIMONIANZE, IMMAGINI
A cura di Marco VEGLIA
Casa Carducci Bologna
Casa Ed. Rocco Carabba
















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