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mercoledì 16 settembre 2009

Albino, il micio miopino

Un giorno due giovani gatti innamorati misero al mondo un bel gattino. Lo chiamarono Albino, poiché, con loro grande sorpresa, il suo pelo era bianco, ma così bianco da sembrare un fiocco di neve.
Sembrava un fiocco di neve forse perché era ancora inverno quando nacque.
Insomma Albino era proprio un bel gattino. Aveva due grandi occhi teneri e profondi, faceva le fusa e cresceva sereno.
Ma un brutto giorno si ammalò e mamma e papà gatto piansero lacrime amare.
Lo portarono dal professor Gattone, eminenza grigia della pediatria felina, che esordì dicendo: “Uhmm! Miao, miao. Si tratta di una patologia molto rara e capricciosa. Va curata con medicine costose, che possono anche essere nocive. Sarebbe meglio recarsi all’estero dove la ricerca è avanzata”.
Mamma e papà gatto non erano poi così ricchi da portare Albino all’estero ma si impegnarono e fecero grandi sforzi affinché il proprio cucciolo non corresse il rischio di diagnosi e terapie errate.
Così volarono verso il Cat’s Hospital di Goston City, famoso in tutto il mondo, dove Albino incontrò tanti gattini di tutte le razze. Venne curato e fu ricoperto da mille attenzioni.
Ricevette bellissimi regali: una cat’s car, un videogame, orsetti di peluche e un teatrino di legno dai mille vivaci colori con tante marionette in maschera.
I genitori accompagnarono Albino anche all’Aquarium dove il piccolo imparò a riconoscere tanti pesci e mammiferi. E lo condussero anche all’Osservatorio Astronomico dove Albino pianse disperatamente non riuscendo a vedere la cometa di Harley.
Ci vollero tanti anni prima che Albino guarisse. Qualche cicatrice si intravedeva ancora ma era pur sempre un bel micio. Solo lui non ci credeva finché un giorno incontrò una micia molto carina. Si chiamava Roxana.
Roxana proveniva da una campagna lontana. Incontrò Albino per i campi in primavera e si sa come vanno le cose per i gatti in primavera. Si innamorarono e Roxana ripeteva all’infinito: “Come sei bello, Mon Amour. Come sei bello, Dou, Dou!”
Quando Albino tornava nella sua tana, cercava subito un pozzo d’acqua per specchiarsi e per controllare quanto fosse bello. Ma ogni tentativo era inutile: si vedeva sempre più brutto. Tra sé e sé pensava: “Come può Roxana dire che sono bello? Forse mentirà”
Ma accadde che un giorno Roxana mise al mondo tanti cuccioli di gatto.
Ve n’era uno bianco, bianco. Bianco come un fiocco di neve. Eppure era primavera!
Albino fu felice della sua "nidiata" e finì per amare in particolare quel cucciolo bianco, bianco, che gli assomigliava tanto! Era proprio bello!
Fu allora che mamma gatto, ormai vecchia, gli disse: “Hai vissuto un’intera vita a vederti brutto e ora ami e ammiri proprio il gattino che più ti somiglia! Finalmente comprendi che lo specchio mentiva e che erano i tuoi occhi a non voler vedere”.
In amore esse alicui

mercoledì 15 luglio 2009

Il topo e il serpente

Tommaso era un topo vivace e ficcanaso, che finiva sempre in un mare di guai. Era più forte di lui la curiosità che lo spingeva ad ardite avventure.
Un giorno, stanco dei piccoli lavori domestici cui era delegato, disse alla sua mamma: “E’ una bella giornata piena di sole, vado per i campi a giocare”
“Mi raccomando, Tommaso,
- ripeté più volte la madre – non avvicinare chi non conosci. Gioca solo con i topini che frequenti abitualmente!”
A Tommaso non parve vero. Scorazzò in lungo e in largo, libero per i campi in fiore. Sostò ai piedi degli alberi. Riprese le sue corse, finché, stanco, si sdraiò a prendere un po’ di sole nei pressi di un masso.
Quando riaprì gli occhietti, vide dinanzi a sé un serpentello verde brillante, che si ergeva a scrutarlo. “Ehi, e tu chi sei?” – chiese allarmato Tommaso – “Da dove salti fuori?”
Il serpente, vanitoso e spiritoso, rispose: “Sono Gabriello, il serpentello più bello della radura. Giochiamo assieme? A me piace fare tanto a nascondino!”
Tommaso rifletté: “Uhm … Beh …Si dà il caso che sia ormai tardi e che mia madre mi aspetti”. “Oh! Non andare via, ti prego – esclamò Gabriello il serpentello più bello – Amico mio, fammi compagnia ancora per un po’. Mia madre è lì, vicino al ruscello. Sta cambiando l’abito, vieni a vedere!”

Tommaso, sorpreso, volle curiosare. Ma, timoroso, non si avvicinò al corso d’acqua. Da lontano poté osservare con grande meraviglia la muta di mamma serpe la quale, più vanitosa del figlio, si specchiava nelle acque limpide e fresche, mentre il suo vecchio abito cadeva a brandelli pezzo dopo pezzo.

Il topo, a quella vista, scappò di corsa a casa e, non potendo nascondere l’accaduto, esordì: “Mammina, sai che oggi ho conosciuto un nuovo amico?” La madre, volendo indagare, incalzò: “Veramente, Tommaso? E dove?” Così il topolino iniziò a raccontare: “Ero a prendere il sole sopra un masso, mamma, quando, aprendo gli occhi, ho visto un esserino esile, esile, tutto verde e contorto che ergeva il capo dinanzi a me e mi guardava incuriosito. Che tipo strano! Dovevi vederlo! Ma ancora più strana era la sua mamma, che cambiava abito nei pressi del ruscello. Tu, mamma, non hai mai fatto così!”
Mamma topo, a quelle parole, inorridì: “Tommaso, topino imprudente e disobbediente, sai in chi ti sei imbattuto? Sono serpenti! E tu sai che cosa fanno i serpenti a topini come te? Li mangiano in un solo boccone! Ahmm! E Tommaso non c’è più.”

Imprudentia nocet

mercoledì 25 marzo 2009

Blow Bubbles

C’era una volta Bolladisapone. Era tonda, trasparente, bionda e lieve.
Aveva la grande capacità di galleggiare sempre e ovunque.
Ogni qual volta si presentava in pubblico era lì che quasi veleggiava sempre più tronfia.
Non potete immaginare come si gonfiò quando la promossero direttrice.

Direttrice di che cosa? In giro non era ben chiaro di che cosa fosse direttrice, perché era capace solo di galleggiare.
Quante cure dedicava al suo aspetto per renderlo sempre più lieve e levigato! Era costante la sua frequenza dal bollucchiere!

Ma un giorno accadde che si sollevò un forte vento che scosse alberi, cespugli, fiori e che spazzò via tutto ciò che incontrò per strada.
Bolladisapone in quel momento usciva da uno dei tanti convegni che altri organizzavano per lei.
Il vento soffiò così forte che la trascinò via con forza.

Mentre il vento la trasportava lontano, Bolladisapone gridava così:
“Aiuto! Aiuto!! Vento, fermati, fermati! Sai, conosco persone importanti, posso fare molto per te!”
Ma il vento, sordo ad ogni richiamo, continuò a spazzare tutto e Bolladisapone si ritrovò contro un rovo di spine che la sgonfiò miseramente.
Vanitas atque imperitia imperant



mercoledì 11 marzo 2009

Nerino e Bubo, il gufo reale

C’erano una volta tanti gatti, tutti diversi e sparsi per la campagna. Ognuno aveva la sua famigliola e viveva in grande solitudine.
La campagna era triste e silenziosa, soffriva perché i suoi abitanti si amavano poco. Si amavano poco forse perché erano tutti così diversi!
C’erano i gatti Rossini, c’erano i Nerini, c’erano anche gli Albini e gli Arancini. Si conoscevano a mala pena e se si incontravano accennavano un fioco “Miao! Miao …”, quasi da non sentirsi. I gattini invece si facevano le fusa e avrebbero volentieri giocato attraverso i prati in fiore. Era infatti primavera e le belle giornate e i ruscelli, pieni di neve sciolta, invitavano alla vita. Ma papà e mamma gatto non volevano che i loro piccoli avvicinassero quelli dei vicini. Si raccontava, infatti, che in un tempo molto lontano un gattino di nome Bluino fosse sparito nel nulla. Inutili le ricerche, di Bluino non si seppe più nulla.
Così i gatti avevano proprio un gran terrore a lasciare incustoditi i propri piccoli.
Un mattino, mentre papà e mamma gatto dei Rossini e dei Nerini facevano la spesa, i gattini iniziarono a scherzare, quindi a nascondersi per poi rincorrersi nei campi fino ad allontanarsi.

“Nerinoooooo!!!”, “Nerinaaa …!!” – gridavano papà e mamma Nerini, sperando di riabbracciare subito i loro piccoli.
“Rossinaaaa!!!”, “Rossinoo …! “– dicevano a gran voce i genitori Rossini, fiduciosi di trovare i propri cuccioli fra le bancarelle del mercato! Così non fu.
Anche i gattini avrebbero voluto tornare dai genitori ma avevano perso la strada e non sapevano più che cosa fare.
Nerino, il più grande dei quattro, studioso e diligente, sapeva tante cose e si sentì responsabile dell’accaduto. Tra sé e sé rifletté che avrebbe fatto l’impossibile per riportare i gattini sani e salvi a casa.
Intanto le due famiglie solidarizzarono e chiesero aiuto ai vicini per ritrovare i figli.
I gatti Rossini pensavano: ”I Nerini sono gatti attenti ed assai educati!” I Nerini, a loro volta, dichiaravano: “La famiglia Rossini è tanto a modo!” Anche gli Arancini e gli Albini, venuti a conoscenza del fatto, manifestarono partecipazione ed offrirono ogni tipo di collaborazione.
Papà Rossini, amareggiato, addolorato, confidò: “Dovevano sparire quattro gattini affinché noi adulti parlassimo e ci guardassimo negli occhi? Se i nostri figli avessero avuto tempi e spazi per giocare non sarebbero scomparsi!”

Cammin facendo i quattro gattini attraversarono l’aperta campagna fino ad arrivare al limite del bosco. Faceva buio e le ombre della notte ormai avvolgevano la natura. Rossina, stanca di tanto cammino ed affamata, iniziò a piangere. Lacrime tonde, tonde solcavano il paffuto musetto. “Voglio tornare a casa. Voglio la mia mamma! Ho paura del buio. Mammina, mammina!” – così diceva fra un singhiozzo e l’altro. Nerina l’abbracciò, la tenne stretta a sé e provò a consolarla, cantando filastrocche: “Mi, ma me, tutto questo tocca a me. Dillo pure alla Regina che lo dice al suo Re. Mi, ma, me, vai lì e pensa a me. Dillo pure alla mammina che lo dice alla nonnina. Se tu questo farai, grande diventerai.” Intervenne Nerino che richiamò l’attenzione di tutti: “Miei piccoli, mi spiace vedervi così rattristati. Questa notte dovremo dormire sotto le stelle. Ma state pur certi che domani torneremo nelle nostre case.” E, scorgendo un grande olmo sul limitare del bosco, lo indicò come rifugio sicuro.
Avevano già trovato un’accettabile sistemazione sulla tenera erbetta ai piedi dell’albero, quando Nerino si accorse che due grandi fari gialli erano puntati su di loro. Alzò il capo e intravide fra i rami un austero gufo che li scrutava guardingo.
“Oh, Signor Gufo, buonasera!” – disse Nerino – “Chiediamo scusa per tanto disturbo, ma abbiamo perso la strada di casa e ora è buio, né sappiamo dove andare. La prego” – continuò Nerino – “ci offra ospitalità, solo per questa notte! Domattina, di buon’ora, andremo via e non saremo più d’incomodo”. Il gufo rispose: “Mio piccolo, caro gattino, nessun fastidio arrechi tu con i tuoi compagni a me e ai miei compagni. Mi chiamo Bubo e sono il gufo reale del bosco. Si dice che io sia poco socievole, ma sono solo dicerie. Te lo dimostrerò. Voglio, tuttavia, avvertirti che non è prudente sostare ai piedi dell’olmo. Da queste parti, nel bosco, di notte fonda, girano strani bifolchi con uncini e coltelli. Sarebbe assennato se voi vi arrampicaste sui rami.” Nerino aggiunse: “Grazie, Signor Gufo, lei sì che è molto gentile! Io e mia sorella siamo capaci di saltare fra i rami, ma Rossina e Rossino sono ancora troppo piccoli, non hanno equilibrio.” Bubo, il gufo reale del bosco, per un po’ rimase perplesso e pensieroso e, prima di dare una risposta saggia e onesta, rifletté a lungo: “Ci sarebbe un modo per farvi tornare a casa prima che faccia più buio! E’ rischioso. Dovrei pertanto consultare i miei amici barbagianni, nonché un vecchio inquilino dell’olmo.” Detto fatto, iniziò a bubolare e in poco tempo una nuvola oscura di barbagianni accorse a stormo. Erano tanti, tutti richiamati da Bubo, il gufo reale.
Si appollaiarono sui rami e diedero inizio a un intenso e vivace chiacchiericcio.
Frattanto dal tronco dell’albero provenivano strani rumori. Sembravano colpi, graffi e un acceso e selvaggio miagolio. All’improvviso da una cavità saltò fuori un gatto vecchio e malandato, abbrutito da una realtà selvatica e ostile. Il suo pelo era scarduffato e ispido. Era color blu notte, reso ancor più notte dall’incuria e dall’asprezza del luogo. Inarcò la schiena, si stirò e arruffò il pelo alla vista dei gattini che indietreggiarono per il timore che incuteva. Gatto Blunotte rimase inerme come se attendesse qualcosa.
Il bubolare dei barbagianni improvvisamente cessò e Bubo, il gufo reale, volò verso i gattini. Si rivolse a Nerino e lo informò: “Mio caro, il Consiglio dei Barbagianni ha deciso per voi! Prima che faccia notte fonda vi guideremo verso casa. I nostri occhi illumineranno la radura, sicché possiate vedere come se fosse giorno. Ci scorterà Gatto Blunotte, che da tempo è nostro fidato alleato. Sfodererà i suoi temibili artigli, se non bastassero i nostri, contro chiunque volesse attaccarci!” Nerino ringraziò e immaginò la felicità dei genitori nel vederli di nuovo in famiglia.
Intrapresero il ritorno a casa. Guidava il viaggio Gatto Blunotte, il quale raccontò a Nerino la sua terribile disavventura, la solitudine provata, la sofferenza quando, un tempo lontano, ancor piccolo, si perse per la sconfinata campagna finché non incontrò il saggio Bubo.
Procedevano insieme, seguiti da Nerina, Rossina e Rossino, avvolti da un nugolo di barbagianni, cui si unirono tante lucciole leggiadre. Tutti insieme illuminarono la notte e i piccoli di gatto poterono riabbracciare mamma e papà.
Gatto Blunotte fu riconosciuto. La sua famiglia, sopraffatta dal dolore, non c’era più. Ora Gatto Blunotte aveva tante nuove famiglie: quella dei Nerini, quella dei Rossini, quella degli Albini e anche quella degli Arancini, che lo festeggiavano ogni qual volta lo incontravano.

Universos pares esse posse aiebat, dispersos testabatur perituros


Questa favola è stata recitata il 20 maggio 2009 da Irene Di Silvio, Rossella Lupi e Federica Marrone della Scuola di Recitazione del Teatro Marrucino di Chieti, diretti dall'attrice Giuliana Antenucci. La lettura recitata è avvenuta dinanzi al folto pubblico affluito in Teatro in occasione del Convegno "La voce dei bambini ..." organizzato per il Ventennale della Convenzione dei Diritti dell'Infanzia e dell'Adolescenza. Il convegno ha così concluso per l'a.s. 2008/09 il progetto di Educazione alla Legalità "Un poliziotto per amico", promosso dalla Polizia di Stato di concerto con l'UNICEF e con il Ministero della Pubblica Istruzione.

Il Viceré

Papero era un promettente costruttore di pollai. In breve tempo, aiutato da soci ed amici, era divenuto ricco e potente.

I suoi poderi si estendevano per tutto il contado e i suoi affari crescevano di giorno in giorno finché tutti lo chiamarono Zio Papero per ingraziarsi le sue simpatie e la sua benevolenza.
Papero, oltre che i soldi, amava le giovani papere. Ce n’era una molto carina, una ballerina del Pip Pap, che finì per sposare. Il suo nome era Papavera. Aveva soffici piume bionde e deliziosi occhi cerulei. Lo fece proprio innamorare e gli diede dei paperotti.

La famiglia cresceva felice e zio Papero veniva applaudito da tutti. Aveva molti fans e tutto procedeva a suo favore.
Trascorsero alcuni anni e zio Papero non era più costruttore. Lui sì che aveva avuto successo! Ora era un gran papavero, blasonato e rispettato, che sedeva nel Gran Consiglio di Paperopoli. Divenne in breve Viceré.

Anche i suoi soci ed amici erano ben sistemati! Ognuno di loro aveva un incarico importante.
Frattanto nel contado si addensavano nubi oscure. I tempi erano divenuti duri. Si rimpiangevano quelli in cui circolava tanta ricchezza!!!
Vi era stata una grave epidemia che aveva mietuto vittime. Anche i contadini stavano soffrendo. Il raccolto era scarso. Un’ondata di gelo aveva danneggiato le colture.
I paperi non ne potevano più, mentre il Gran Consiglio restava indifferente alle loro istanze.

Accadde che un giorno i paperi del contado organizzassero una manifestazione:
“Qua, qua, qua … Vogliamo condizioni di vita migliori!”. “Qua, qua, qua … Vogliamo tutelare i nostri figli!”. “Qua, qua, qua ….Vogliamo lavorare …”. E sfilarono tutti sotto le finestre del Gran Consiglio di Paperopoli.
I Consiglieri, di tutta risposta, ordinarono ai poliziaperi di disperdere con forza i manifestanti. Fu così che i poliziaperi caricarono contro i paperi del contado. Vi furono contusi, feriti e ci scappò anche il morto.

Il dolore fu grande. Il silenzio piombò sul contado e su Paperopoli. Ma la rabbia covava negli animi e non passò molto tempo prima che i paperi organizzassero una rivolta.
Sfilarono ancora sotto le finestre del Gran Consiglio: “Vogliamo mangiare! Qua, qua, qua …” “Vogliamo vivere! Qua, qua, qua …” “Vogliamo un futuro migliore! Qua, qua, qua …” E ancora una volta i poliziaperi caricarono contro di loro.

Questa volta però i paperi erano pronti e preparati a tutto. Si difesero e resistettero alla carica. Circondarono il Palazzo del Gran Consiglio e lo espugnarono. Chiesero quindi di parlare con il Viceré, quell’ardito papero che un tempo lontano razzolava con loro nel contado.

Questi ricevette una delegazione nell’intento di negoziare la resa: “Dunque a che cosa si deve questa rivolta?” – chiese minaccioso ed arrogante – “Forse che non avete di che vivere? Qua …qua!” Un giovane papero, disperato, rispose: “Le nostre famiglie sono stremate. I nostri figli sono senza pane e senza futuro. Non possiamo più tollerare tutto ciò! Vogliamo vivere! E’ giusto che la vostra sconfinata ricchezza sia ridistribuita, poiché costruita sull’inganno e con le frodi!” Il papero Viceré, infuriato: “Come osi, tu, qua, qua, qua, parlarmi così! …Qua, qua, qua … Guardie, prendetelo e uccidetelo!” Ma era tardi. Il Viceré non esercitava più alcuna autorità. Era ormai spodestato, le sue guardie inermi. Fu invece lui ad essere catturato dai paperi insorti, che, occupato il Palazzo, issarono una nuova bandiera, quella della libertà e della dignità dei paperi.

Libertatem afferunt

mercoledì 4 marzo 2009

La Favola

GENERE LETTERARIO

Usato dagli scrittori nei periodi storici in cui non vi era libertà di pensiero, di parola, di stampa

RACCONTO CON POCHI PERSONAGGI

GENERE LETTERARIO MOLTO ANTICO

L’insegnamento e’ espresso in forma esplicita o all’inizio o alla fine

E’ un racconto breve, un racconto che vuole insegnare una MORALE

E’ un racconto in un’unica vicenda

Nella favola gli animali rappresentano le virtù e i vizi degli uomini

I PERSONAGGI SONO DUNQUE ANIMALI

Lupobianco

Un branco di lupi aveva eletto re del bosco Lupobianco.
Austero, elegante e sempre in tiro, quando Lupobianco camminava per il bosco tutti si prostravano al suo cospetto e gli tributavano onori.

Volevano essere come lui, gagliardo e famelico, vittorioso e gaudente.
Poco importava se fosse bugiardo e ingordo; se azzannasse agnelli innocenti e inermi.
Un giorno, mentre Lupobianco si intratteneva nella radura del bosco, Orsobruno camminava con i suoi piccoli al calar del sole, lì vicino.


A Lupobianco non parve vero di avere a così breve portata di zanna tanta carne tenera e giovane ed esclamò: “Oh, che bei bocconcini per le mie brame!”
Balzò in avanti pronto a leccarsi i baffi, ma si ritrovò dinanzi Orsobruno, il quale, prima ancora che Lupobianco potesse spalancare le fauci, gli graffiò con i feroci artigli gli occhi che iniziarono a sanguinare.
Il capo branco non vedeva più. Barcollava, procedeva tentoni, ululava a più non posso: “Uhuuuuu …..Uhhhh …”.

Anche papà Orsobruno ringhiò ferocemente per richiamare l’attenzione dei compagni.
Intanto uditi gli ululati di Lupobianco, il branco accorse nella radura ma, una volta arrivato, si vide circondato da tanti possenti, ruvidi orsi.
Fu così che i lupi se la diedero a zampe elevate e capirono che c’è sempre qualcuno più forte e potente.

Ubi maior minor cessat

martedì 3 marzo 2009

Il Passerotto

Un passerotto volteggiava d’inverno alla ricerca di cibo.
Una gazza, passando nei pressi, lo vide, gli si avvicinò e gli disse:
“Amico mio, un modo c’è di fare bottino! Diventiamo soci e fatti guidare.”

Ma il passerotto, che aveva una nidiata da sfamare, le rispose:

“Grazie, Signora Gazza Ladra, le mie briciole sono poche, ma oneste.
Nutre molto più un po’ di pane onesto, che uno sporco ed indigesto.”

Integritatis hominis

Il Calabrone

Un calabrone, nullafacente, ronzava, ronzava a spasso per le vie della città. Verso sera, un po’ stanco, pensò di fermarsi per ristorarsi nei pressi di una cantina.

Lì c’era un vecchio cane, triste ed infelice per aver perso da poco il padrone.

Il calabrone, scanzonato e sbruffone, nonostante lo vedesse affaticato, si avvicinò al cane e gli disse:
“Srrr …Srrr … Caro cane, mi dispiace darti fastidio. Mi fermo qui perché ho bisogno di rifocillarmi”

Il cane, non volendo ascoltarlo, gli rispose: “Le mie orecchie, logorate dal mondo, sono sorde ai tuoi fastidiosi ronzii. Va’ e torna da dove sei venuto. Ho altro a cui pensare!”

Il calabrone, impavido ed insolente, continuò a ronzare attorno alle orecchie del cane. Questo, infastidito, abbaiò ed abbaiò, sollevando le robuste e pelose zampe.

A tale vista il calabrone, spaventato, si allontanò e tornò da dove era venuto … un paese di boriosi bofonchioni.


Inani superbia tumens