Continua la narrazione dell’avventura
umana di
Giosué Carducci (seconda parte)
Nel maggio del
1860 mille giovani patrioti guidati dal Generale Garibaldi compirono la grande
impresa: la spedizione dei Mille. Anche Giosuè partecipò alla lotta, impugnando
la più efficace delle sue armi: la poesia. Al poeta però sarebbe sempre restato
un rimpianto: «Oh se le sventure non coglievano la mia famiglia anzi tempo,
ed avessi potuto fare anch’io qualche cosa (e non solo scribacchiare!) sarei
stato più contento più gioioso e anche avrei potuto far meglio in letteratura;
perché la vita vien solamente dall’opera, dall’opera ardente e dal pericolo e
dal contrasto. In questa vita che meno ora tutto è gelo, gelo la cattedra, e
gelo l’uditorio, gelo io stesso. Al diavolo!»
Ferdinando
Cristiani, garibaldino e suo grande amico, così gli scriveva il 23 agosto 1860:
“Caro Giosuè, due sole parole per significarti che questa mattina alle ore 5
sono arrivato a Palermo. Domani parto alla volta di Milazzo dove appena giunto
sarò alle fucilate. Dunque se fra un mese almeno non vedi più mie lettere sai
quello che mi sarà toccato. Dunque abbiti mille e mille baci. Se tu vedessi, caro
Giosuè, che spettacolo sublime è il vedere migliaia e migliaia di scelti
giovani con le loro bluse scarlatte, cappello alla calabrese, percorrere
giulivi e festanti le vie di Palermo. Evviva dunque il prode Generale, unico e
vero salvatore d’Italia.”
All’indomani
dell’Unità d’Italia, la classe dirigente, e con essa la Monarchia
costituzionale, apparvero a Carducci inadeguate al loro compito storico e, peggio, assoggettate alla
Chiesa. A Roma, contro Pio IX non si
poteva andare «che con la rivoluzione».
L’Italia che
Carducci aveva sognato era niente senza Roma capitale; e la politica
conservatrice della Destra accendeva nuove ire e nuovi sdegni. A Goffredo
Mameli, morto per la Repubblica romana del 1849, Carducci dedicò alcune tra le
pagine più commosse e appassionate, facendone il primo esempio di culto laico
della Terza Italia, per un Risorgimento che fosse vissuto come religione civile:
“Tu cadevi, o Mameli, con la pupilla cerula fissa a gli aperti cieli, tra un
inno e una battaglia cadevi; e come un
fior ti rideva da l’anima la fede, allor che il bello e biondo capo languido
chinavi, e te, fratello,copriva l’ombra siderea di Roma e i tre color.
Amici pedanti: Gargani, Carducci, Chiarini |
Carducci, propugnatore dell’ideale repubblicano, dava
certo fastidio alla classe politica dirigente. Quando, nel 1867-68, dopo
l’orrore di Mentana, Carducci si espose sempre più politicamente, finì col
subire procedimenti disciplinari. La Prefettura lo teneva sotto osservazione,
ed esprimeva al Ministro il parere che egli dovesse essere allontanato da
Bologna. Ma Giosuè non si lasciò intimidire, né fu disposto a scendere a
compromessi.
Nella poesia Enotrio
cantò il ventennale dell’8 agosto 1848: «La
santa Libertà non è fanciulla da poco rame […]Marchesa ella non è che in
danza scocchi da’ tondeggianti membri agil diletto,il cui busto offre il seno
ed offron occhi tremuli il letto …».
Il 1870, per
Carducci, non fu solo l’anno della redenzione di Roma, ma anche l’anno dei
lutti familiari: il 3 febbraio moriva Ildegonda Celli, la madre. Giosuè ne patì
al punto che non ne scrisse neppure un verso. Venne poi l’autunno, e il 9
novembre vi fu un altro dolore: il più grande della sua vita. I medici avevano
fatto di tutto, ma non riuscirono a salvare il piccolo Dante, il figlioletto, che,
caduto «in un sopore quasi brutale, rotto di quando di quando dalle smanie
della febbre e da qualche intervallo di conoscenza in cui chiamava la mamma»,
lo lasciava per sempre. Ma occorreva riprendere il lavoro, e continuare a
battersi per «le grandi
irradiazioni delle idee che gli uomini savi chiamano utopie».
Dopo la morte di
Dante, Giosuè mostrò segni di insofferenza e irrequietezza: la tragedia portò
con sé la necessità dell’oblio. Una nuova e inaspettata primavera gli fu
offerta, nel corso del 1871, dall’irruzione nella sua vita di Carolina
Cristofori Piva (Lidia), moglie di un ufficiale in congedo dall’esercito regio,
già garibaldino. Con lei Carducci avviò un colloquio epistolare tra i più
celebri e suggestivi dell’Ottocento. E la svolta contagiò anche la poesia: l’esperienza
barbara, vera e propria
rivoluzione nella tradizione metrica e poetica italiana, per l’allargamento a
territori esistenziali e letterari mai esplorati prima, per le suggestioni
wagneriane.
Il
tempo dei privilegi è passato… 8 agosto
1873: il democratico Carducci, per l’anniversario della cacciata degli
Austriaci da quella che ormai era, a tutti gli effetti, la sua città, pronunciò
un discorso appassionato alla cerimonia di premiazione dei migliori allievi
delle scuole serali, che si tenne nella chiesa sconsacrata di Santa Lucia. Elogiò
i sacrifici degli operai e degli agricoltori, che avevano trovato il tempo e
l’energia per studiare dopo il duro lavoro, invocò commosso la discesa della «luce
spirituale» dell’istruzione nella società civile, e annunciò la fine del tempo dei privilegi.
Tra il 5 ed il 7
novembre del 1878 Umberto I e la giovane regina Margherita di Savoia giunsero a
Bologna, accolti da festosi cortei popolari, e il 6 novembre fecero visita
all’Università dove, a rendere omaggio assieme al corpo accademico, c’era
Giosuè Carducci. Guardando in quegli anni alla situazione politica italiana ed
europea, Carducci presagiva tempi duri, che però non spensero nel suo animo le
aspirazioni di palingenesi. «Brutti tempi – scriveva al Chiarini
nel luglio 1877 – E non è proprio che questo sia un lamento. L’Europa è
marcia, è marcia, marcia: e così deve essere, necessariamente: putrescat ut
resurgat».
La
corruzione si attacca anche ai migliori, da Lettere di Carducci - Lettera di
Carducci a Dafne Gargiolli del 24 ottobre 1883:
Gentilissima Signora,
se Le dicessi che io mi trovo
contento di questa vita romana, Le direi una gran bugia. Lo scirocco e la
pioggia, la camorra e le chiacchiere, se non mi fiaccano, mi affrangono: il
caldo umido, morale e fisico, non mi si affà. Amo perdermi e dimenticarmi lungo
l’Appia e la Flaminia, o sul Gianicolo, o per il deserto tra il Foro e le Terme
di Caracalla e il Laterano: ma Piazza Colonna e i Ministeri e il palazzo della
Prefettura mi annoiano e peggio. Desidero Bologna, e sospiro ai silenzi verdi
di San Leonardo, dove imagino che mi troverei benissimo per tradurre Tibullo,
se però Ella non volesse costringermi a far versi, «mestiere esecrabile a un
italo cuor». […] All’amico nostro, per
tornare a lui, nocque la lontananza di Roma:
i lontani qui sono dimenticati e morti: le lettere non giovano, non le
leggono o le scordano tutte per intiero dopo la lettura; promettono, e poi,
senza pur volerlo, non attengono o fanno il contrario di ciò che avevano
promesso. Non c’e autorità che tenga; nessuno vale per questa povera gente di
ministri, se non i deputati con lo spaventacchio dei voti. Il potere legislativo
invade, intralcia e guasta la macchina dell’esecutivo. Le «piovre» dei cinquecento
deputati coi cinquecentomila (metto una riga di corrispondenza; ma sono più
centinaia di migliaia) figliuoli, nepoti, mogli, amanti delle mogli, mantenute, amici
delle mantenute, ruffiani ed elettori, succhiano tutto, empiono tutto,
imbrattano tutto. La corruzione si attacca anche ai migliori. Fan delle brutte
azioni senza accorgersene, in buona fede. Ahi, signora, parliamo d’altro; o
meglio non parliamo più: il bianco della carta è finito, ma non la fede. Io
seguiterò ad occuparmi; per i desideri giusti di Carlo speriamo di arrivare ad
ottenere qualche cosa. Scrivendole così a lungo pur di cose spiacenti,
sfogandomi, mi pare di star meglio, cioè di esser meno triste. Aspetto la
consolazione d’una sua parola, se non armonicamente parlata, scritta
elegantemente.”
Egli era divenuto
più consapevole dell’urgenza immediata di una unificazione morale
della nazione, e di un ulteriore impegno per il processo di nation
building. Come larga parte degli uomini del 1860, egli si
volgeva dunque (pur restando un repubblicano all'antica) alla monarchia, in cui
poteva scorgere una garanzia efficace contro il clericalismo, da un lato, e
contro le forze socialiste dall’altro. L’incontro con i Reali a Bologna suggellò
una nuova alleanza allo scopo di
accelerare il processo di modernizzazione del paese e di portare a compimento
le riforme necessarie.
Quando giunse la grande ora, il 16 febbraio 1907, a pochi
giorni dal premio Nobel che ne consacrò
la vita e l’operosità, Giosuè poteva ancora infondere, anche nel silenzio della
morte, un insegnamento imperituro.
https://it-it.facebook.com/ilsorpassomontesilvano/
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FONTI:
CARDUCCI, VITA E LETTERATURA. DOCUMENTI, TESTIMONIANZE, IMMAGINI
A
cura di Marco VEGLIA
Casa
Carducci Bologna
Casa
Ed. Rocco Carabba