mercoledì 11 marzo 2009

Valori giovanili

Valori, comportamenti, pratiche giovanili nella società odierna.

Nella società dell’informatica, dell’informazione, della globalizzazione e dell’immagine occorrerà formare una conoscenza capace di affrontare la complessità dell’esistenza umana attuale e futura. L’apprendistato alla vita si potrebbe fare seguendo due vie: una interiore, l’altra esteriore.
La via interiore passa attraverso l’autoanalisi, l’autocritica e anche attraverso la metacognizione (Bruner, Vigosky, Feuerstein). L’autoanalisi deve essere insegnata a partire dalla scuola primaria e durante tutto il suo corso. Bisognerebbe insegnare come la visione delle cose dipenda non tanto dalle informazioni ricevute quanto dal modo in cui è strutturato il nostro modo di pensare. Ai giovani bisognerebbe insegnare gli errori e le deformazioni che si verificano anche nelle testimonianze più sincere e convinte. La via esteriore sarebbe l’introduzione alla conoscenza dei media. I nostri studenti si trovano oggi precocemente immersi nella cultura mediatica (televisione, giochi, video,annunci pubblicitari). Ruolo del maestro non è quello di denunciare, ma di far conoscere i modi di produzione di tali culture. Si dovrebbe mostrare come il trattamento delle immagini filmiche, televisive, specialmente attraverso il montaggio, possa dare un’impressione arbitraria della realtà. Il maestro potrebbe anche commentare, ambientare le trasmissioni seguite e i giochi praticati dagli allievi fuori dalla classe. Fermo restando che verranno seguiti e trasmessi gli altri saperi. Nella scuola secondaria missione capitale dell’insegnamento è la salvaguardia della cultura umanistica. Ma oltre l’insegnamento delle varie discipline, gli insegnanti, i dirigenti scolastici, soprattutto quelli della scuola secondaria, dovrebbero educarsi rispetto al mondo adolescenziale e alla sua cultura. Al di sotto di quella che viene definita “collaborazione di classe” vi è sempre stata una lotta di quartiere fra insegnanti, che detengono il potere e la maggior parte degli studenti. Questi ultimi si creano il proprio underground clandestino, che realizza le sue piccole trasgressioni (copiature, sistemi per non fare scena muta ecc.). Se poi si pensa alle disagiate condizioni di certe periferie, “la lotta di quartiere” raggiunge livelli allarmanti. La scuola dovrebbe istruirsi sull’autonomia acquisita dal mondo adolescente, a partire dagli anni ’60, ’70, in rapporto alla cultura familiare, alla cultura scolastica, sulle forme di aggregazione e sulle regole specifiche dei gruppi adolescenti (clan) fino ad arrivare, là dove c’è disgregazione del mondo familiare e del tessuto sociale (periferie) alla formazione di clan che costituiscono vere e proprie micro-società, con i loro territori sacralizzati, con la loro legge di vendetta, con il loro codice d’onore. Si tratta di progredire nella reciproca conoscenza, nel mutuo riconoscimento di due universi imbricati l’uno nell’altro, ma che non si conoscono. La scuola ha il compito di avvicinarsi all’irruzione della cultura mediatica ad essa esterna, ignorata e disdegnata da certo mondo intellettuale. La conoscenza della cultura mediatica è necessaria per comprendere non solo i processi multiformi di industrializzazione e di sovracommercializzazione culturale, ma anche ciò che i media traducono e traggono, come temi, dalle aspirazioni e dalle ossessioni proprie dello “spirito del nostro tempo”. In pratica la scuola può impegnarsi affinché gli studenti comprendano che le serie televisive, di cui gli allievi si nutrono, con le loro convenzioni e visioni stereotipate, situazioni enfatizzate, trattano, come il romanzo e la tragedia, delle aspirazioni, delle paure e delle ossessioni delle nostre vite: di amori, odii, incomprensioni, fraintendimenti, incontri, separazioni, fortuna, sfortuna, malattia, morte, speranza, disperazioni, astuzia, ambizione, imbrogli, denaro, divertimenti, droghe. Non è possibile continuare ad insegnare gli stessi contenuti attraverso le stesse modalità, gli stessi tempi di 50 – 100 anni fa. L’infanzia, l’adolescenza di oggi sono profondamente cambiate rispetto a quelle di qualche generazione fa. I loro tempi sono notevolmente accelerati. I campi d’interesse anticipati. Lo si individua bene attraverso lo studio dell’editoria dell’infanzia e dell’adolescenza e attraverso la produzione libraria ad esse dedicata. Fino agli anni ’50-’60 era ancora possibile leggere, narrare la letteratura dell’800 o anche del ‘700. Ma dagli anni ’60, ’70 in poi vi è stata una vera rivoluzione copernicana, cui ha resistito solo Pinocchio di Lorenzini. Del resto il ritmo narrativo del capolavoro di Collodi è incalzante ed il tema della ribellione e della trasgressione è ben compreso dal bambino e dal ragazzo di oggi. Negli ultimi anni, poi, si è assistito al più grande cambiamento avvenuto mai nell’universo giovanile. Come già affermato, la trasformazione, in rapporto alle generazioni precedenti, può definirsi rivoluzionaria. Né potrebbe essere altrimenti dato il consumismo, di cui la televisione è soltanto la punta più evidente, la velocità nel viaggiare, nell’avere informazioni. Oggi Roma - NewYork si raggiunge in meno di sei ore di viaggio. Negli anni 50 del XX sec. occorrevano trenta giorni e più di navigazione atlantica. L’informazione scorre on-line 24 ore su 24. E’ certo ormai che la televisione ha contribuito non solo ad anticipare i campi di interesse giovanili, favorendo il consumismo, ma ha anche accelerato la rapidità di apprendimento. Le generazioni che hanno preceduto le attuali hanno appreso la struttura della narrazione attraverso il libro e non all’età di sei anni, quando frequentavano la prima classe elementare, oggi primaria, ma a otto anni, quando erano già in terza classe ed avevano sviluppato una certa libertà nella capacità di lettura. Ora, invece, anche grazie agli spot pubblicitari, brevi sì, ma che già contengono una story-board, i bambini di quattro anni riescono a capire la struttura narrativa se non addirittura ad anticiparne le sequenze. Dunque tempi e campi d’interesse anticipati; ritmi e gusti che risentono delle influenze ed esigenze contemporanee. I libri di Salgari e di Verne, quantunque a loro tempo avvincenti e capolavori, oggi sono superati dagli speciali di Super-Quark- L’horror, il giallo affascinano l’infanzia poiché essi esorcizzano la paura dell’ignoto, della realtà incombente e complessa. Un sistema educativo, una teoria pedagogica, un indirizzo politico-nazionale di ampio respiro che sottovaluta il contributo della scuola allo sviluppo dell’autostima degli alunni fallisce in una delle sue funzioni primarie, fallisce come agenzia formativa a vantaggio di una miriade di agenzie “antiscuola”, dove molti giovani si rifugiano per compensare il fallimento vissuto a scuola. Le “agenzie antiscuola” sono bande di “micro-criminalità” che rinfoltiscono le loro fila con adolescenti alla ricerca della propria identità e del rispetto dei pari. Gli esiti di tale concorrenza sono evidenti negli USA, dove vengono alienati abbastanza ragazzi neri per sbarcarne un terzo in prigione prima dei trent’anni. Da noi la situazione sociale fa presagire uguale destini se non si corre ai ripari. Se la capacità d’azione (saper fare) e la stima (saper essere) sono essenziali per la costruzione del concetto di sé, allora il funzionamento del sistema scolastico va esaminato anche in funzione del contributo dato a queste due componenti essenziali della personalità. Bisogna dunque ricorrere all’assegnazione di maggiore partecipazione e responsabilità nella scelta e nel raggiungimento degli obiettivi in tutti gli aspetti delle attività scolastiche. E’ urgente implementare il diritto alla cittadinanza attiva. Tale concezione, cara alla tradizione progressista in campo educativo, è in linea con il principio costituzionale secondo cui in una democrazia diritti e responsabilità sono due facce della stessa medaglia. Bruner sostiene che in molte culture democratiche ci si preoccupa troppo dei criteri formali del “rendimento” e degli aspetti burocratici dell’istruzione, in quanto istituzione, tanto da trascurare l’aspetto personale dell’educazione. Anche Morin, come Bruner, rivaluta l’importanza della cultura umanistica, in particolare della narrazione, del romanzo. Laddove vi è una storia insufficiente, incompleta, inadeguata su se stessi, nasce, si sviluppa una nevrosi. La narrazione è probabile abbia la stessa importanza e funzione per la coesione della cultura quanto per la strutturazione di una vita individuale. A proposito vale la pena di ricordare che Peter Pan chiede a Wendy di tornare con lui nel “Paese che non c’è”, per convincerla, così le spiega, che potrebbe insegnare ai “bambini smarriti” a raccontare storie. Infatti se le sapessero raccontare, potrebbero crescere, imparerebbero a crescere. L’invenzione narrativa stimola l’immaginazione. Morin e Buner, ma anche Gadner danno grande importanza alla cultura umanistica che è riuscita a spiegare l’affanno umano, la fatica di vivere, molto più di quanto abbia fatto finora la scienza con i suoi sterili, aridi calcoli ed esplorazioni. Si pensi a Shakespeare, Cervantes, Montagne, Balzac, Dostojeskij, Proust o al grande teatro greco. E’ importante saper narrare, conoscere storie. Queste, assieme ai miti, strutturano e nutrono l’identità di persona. Sentirsi a proprio agio nel mondo, sapendo dove collocarsi in una storia autodescrittiva, oggi è reso ancor più difficile dai flussi migratori. Un bambino, un ragazzo, che arriva da Tunisi a Milano con la famiglia, è letteralmente sradicato, disorientato e per quanto multiculturali siano gli intenti degli operatori scolastici il fallimento dell’integrazione sarebbe certo se non intervenissero gruppi culturali alternativi in grado di aiutare l’immigrato, di sostenerlo, di riempire il vuoto venutosi a creare nella sua esistenza. E perché la narrazione sia strumento della mente, capace di dare significato, bisogna leggerla, farla, analizzarla, sentirne l’utilità. Bruner ritiene che l’educazione dei giovani sia un’attività complessa che cerca di adattare i suoi membri e i loro modi di conoscere alle esigenze della cultura; né può limitarsi all’impiego dei risultati di un “test delle prestazioni” centrato sul soggetto o all’applicazione delle “teorie dell’apprendimento”. La pedagogia moderna è sempre più dell’idea che il bambino, il ragazzo, debba essere consapevole dei propri processi di pensiero e che sia essenziale che il teorico di pedagogia e l’insegnante lo aiutino a diventare metacognitivo, ossia a essere consapevole non solo dell’argomento-materia che sta studiando, ma anche del suo stesso modo di procedere nell’apprendere e nel pensare. Ma acquisire competenze e accumulare conoscenze non basta. Lo studente va aiutato a raggiungere la piena padronanza riflettendo anche sul modo di affrontare il lavoro e su come intervenire per migliorare il suo approccio. Un aiuto può essere la costruzione di una buona teoria per la mente, o una teoria per il funzionamento mentale. Lo studente, in quanto ed innanzi tutto persona, è un essere attivo ed intenzionale, non è un recipiente vuoto che va riempito. Egli già è. Va solo “ex-ductum”. Si ricordi la scuola e la maieutica socratica. La conoscenza è “creata dall’uomo”, non è lì a nostra disposizione. La conoscenza del mondo e degli altri viene continuamente costruita e negoziata con gli altri, sia quelli a noi contemporanei, sia coloro che ci hanno lasciato da tempo. Le culture non sono statiche, stabili, irreversibili. Esse sono in continua evoluzione e la velocità del cambiamento aumenta quanto più i nostri destini umani si intrecciano attraverso le migrazioni dei popoli, il commercio, il rapido scambio di informazioni.
K. Lorenz, studiando le nuove generazioni, sostiene che queste, così come avviene nel mondo animale, sono guidate da una neofilia fisiologica, da un desiderio istintivo di staccarsi dalle tradizioni delle generazioni precedenti per ricercare nuovi ideali con cui identificarsi e per cui battersi. Lorenz ritiene tali comportamenti molto vantaggiosi per la conservazione della specie, in quanto la rende libera, autonoma, creativa, innovativa. Ma per fortuna al periodo della neofilia fisiologica segue quello dell’ubbidienza ritardata e dell’amore per ciò che rappresenta la tradizione. Entrambe le fasi, che contraddistinguono sia la storia e la vita dei singoli, sia quella della collettività, costituiscono la dialettica tra il nuovo e l’antico che non si annullano, ma si compensano. Infatti spinte troppo tradizionali e conservatrici soffocherebbero un sistema, lo condannerebbero all’autoestinzione, così come spinte troppo dinamiche e audacemente innovative lo condurrebbero all’autodistruzione. Ecco dunque la necessità di un equilibrio dialettico fra le due fasi, fra le parti, al fine di garantire quella che Durcheim definisce nel discorso fra la solidarietà organica e la solidarietà meccanica. Ossia puntare sulla solidarietà organica garantisce che ciascuna persona prenda il lievito che gli viene dal sistema precedente in uno scambio collaborativo da una competenza all’altra che consente la neofilia fisiologica, ma soprattutto favorisce l’equilibrio che permette di vivere e di progredire.
Dunque un cambiamento misurato, equilibrato, che coinvolge un sistema, la scuola, da sempre istituzione che insegna, ma che non apprende, non vuole apprendere; organismo che più di ogni altro è resistente alle innovazioni. Forse perché è luogo deputato alla memoria, alla tradizione. Di qui probabilmente il disagio dei giovani che avvertono di essere incompresi. Oggi è necessario che la scuola, riscopra la vocazione per cui è nata: l’eplorazione, la ricerca, la proiezione nel futuro, forte degli strumenti trasmessi dalla tradizione. Gardner in “Sapere per comprendere” sottolinea come negli ultimi anni esponenziali siano stati i progressi della scienza e della tecnica che hanno inevitabilmente influito sugli stili, sui ritmi di apprendimento, ma anche anticipato i campi d’interesse delle nuove generazioni. A fronte di tale rivoluzione copernicana la scuola è rimasta quella di un secolo fa tanto che se un essere umano degli inizi del novecento venisse collocato all’interno di un’aula scolastica attuale sarebbe a suo agio, si orienterebbe perfettamente, poiché i rituali comportamentali sono identici a quelli del suo tempo: prevalenza nella didattica della lezione frontale, esercitazioni scritte, attività decontestualizzate.

La scuola, ambiente decontestualizzato.
Ora mentre nella scuola vige una cultura reale, fatta di programmi, di contenuti di materiale specifico, di libri di testo, al suo interno, fra gli studenti, si consuma una cultura virtuale volutamente ed erroneamente ignorata. Quella dei giovani è detta virtuale nel duplice senso di cultura massmediale e di cultura potenziale; è quella che alcuni definiscono cultura giovanile, quella del muretto o dell’ombrellone. Dentro questo modo di vivere e comunicare dei giovani ci sono principi etici, civici perché la cultura giovanile interpreta le cose, elabora degli orientamenti. Il problema è che la cultura formale, quella degli adulti, della scuola, non dialoga con quella virtuale. E’ bene trovare maggior aggancio tra ciò che appartiene alla cultura formale e che proponiamo da studiare e quanto è tipico della cultura virtuale che gli studenti si portano dentro al fine di far emergere e valorizzare i valori e i contenuti della cultura giovanile, che poco o per nulla viene presa in considerazione dalla scuola e sulla quale poco o per nulla incide la cultura reale della scuola.. Investire sulla negoziazione significa in questo caso dare più spazio alla cultura virtuale dei giovani. Esiste poi una terza tipologia di cultura: la cultura possibile, quella presente nell’ambiente extrascolastico, che non entra ugualmente dentro le mura scolastiche. Il giovane è a contatto quotidiano con la cultura possibile disseminata nel contesto familiare, geografico, nel contesto di vita; è una cultura presente, muta, silente fino a quando non la si interroga. Di essa lo stesso giovane spesso non si accorge. E’ la cultura del territorio, che non comprende solo quello artistico, ma anche il tessuto produttivo così ricco di formazione. La cultura formale della scuola, molto forte, impedisce di riconoscere la cultura possibile che è nell’ordine della coscienza collettiva. La scuola, quindi, è un ambiente decontestualizzato che non riesce a stabilire contatti né con il vissuto culturale dei ragazzi né con il tessuto culturale del territorio. In questo modo finisce con l’essere lontana razionalmente ed emotivamente dall’uno e dall’altro. Accoglie su di sé le insoddisfazioni delle attese e le accuse di inefficienza e di inefficacia. Il rimedio a tale situazione è stato ovviato oltre che nell’invito generico ad una maggiore apertura della scuola al territorio, nelle forme di flessibilità organizzativa e didattica, riconosciute alle scuole proprio con l’autonomia. Oggi le scuole, chiamate a nutrire la “quota di curricolo loro riservata” con insegnamenti ed attività autonomamente scelti, possono rispondere all’esigenza di una maggiore aderenza alla cultura possibile, presente ed espressa nel territorio, e possono trarne maggiore soddisfazione.

Il predominio della cultura umanistica.
La cultura nel nostro tempo è stata contraddistinta dalla dualità della cultura umanistica e scientifica. C.P. Snow, nel suo fortunato saggio del 1959 , già denunciava la pericolosa frattura tra le due culture e non a caso preannunciava un “conflitto fra esse”. Oggi in più sedi si denuncia l’endemica ipotrofia della cultura scientifica nelle nostre scuole a vantaggio della cultura umanistica. Il Libro bianco sulla scuola di E. Cresson ha messo in risalto che i giovani potranno andare incontro a degli shocks nel futuro, se non avranno una preparazione adeguata. Uno di questi shocks è proprio quello causato dal celere Know-how della società scientifica e tecnologica. L’ uomo di oggi avverte contemporaneamente i benefici e le minacce derivanti dal progresso scientifico e tecnologico. Ai nostri tempi si sta verificando lo stesso sfasamento tra progresso da una parte e coscienza collettiva dall’altra, che ha contraddistinto la transizione dal Medio Evo al Rinascimento. Il progresso scientifico e tecnologico ha ritmi sostenuti di evoluzione, mentre la coscienza collettiva non è capace di tenere dietro a tale andamento. Solo una maggiore preparazione e formazione scientifica di tutti può aiutare ad evitare lo shocks. Non basta. Nelle nostre scuole si registra anche la sottovalutazione di quella che viene definita la terza cultura: le scienze sociali, che hanno la stessa dignità epistemologica delle altre due culture. Il supporto scientifico a tale affermazione è dato da W. Lepenies “Le tre culture”, da M.Talamo “Oltre le due culture”, ma anche da E. Morin “La testa ben fatta” e Gardner “Sapere per comprendere”. Già la Commissione dei Saggi, invitata ad indicare “i saperi essenziali per la scuola del futuro”, a suo tempo, aveva rimarcato il maggiore peso da assegnare ad alcuni saperi nell’impianto curricolare. E’ il caso dell’arte, della musica, del cinema, della filosofia, del diritto ed economia, di cui si chiede una maggiore considerazione e, quindi, estensione a tutti i segmenti scolastici ed ai diversi indirizzi. L’impianto curricolare attuale del nostro sistema scolastico non assicura, quindi, l’equilibrio tra i diversi saperi finendo con il non essere rispondente alle esigenze del tempo e con il produrre una formazione culturale incompleta e disorganica nei giovani. Con la riforma come si può rispondere a questa carenza? Si risponde con la ridefinizione dell’impianto curricolare di ciascun segmento scolastico. Si ipotizza una riorganizzazione del curricolo che preveda l’equilibrio tra le tre culture: quella umanistica, quella scientifica e quella sociale, prima che lo studente acceda ai diversi indirizzi della scuola secondaria in cui specifiche caratterizzazioni sono necessarie. Maggiore equilibrio, dunque, tra cultura umanistica, cultura scientifica e cultura sociale e nuovi saperi emergenti nel nostro tempo: è un cambiamento necessario. E’ bene che un giovane conosca non diciamo la sociologia, ma alcuni fenomeni sociali rilevanti; che abbia la conoscenza di alcuni elementi di psicologia; che esca dalla scuola dell’obbligo e sappia riguardo al concetto di responsabilità civile e responsabilità penale (guida il motorino!); che conosca l’apparato giudiziario, gli organi dello Stato, i partiti politici, elementi di economia ( Pil, Euro, Bilancio dello Stato); che sappia perché si pagano le tasse e perché i paesi poveri sono sempre più poveri ( circolo vizioso della povertà). Etc. Si deve tendere all’organicità curricolare. Se non dovessero riuscirci con i curricoli nazionali si può sempre intervenire con gli insegnamenti e le attività autonomamente definiti dalle scuole, cha vanno ad arricchire l’offerta formativa.

Il fascino ed il mito dell’esaustività.
Attualmente il percorso scolastico che si offre all’alunno è frammentato in senso verticale in quattro segmenti: scuola dell’infanzia, scuola primaria, scuola media, scuola superiore. Lo è anche a livello orizzontale: ci sono ben 200 indirizzi. In senso verticale assistiamo a una riproposizione di contenuti e di conoscenze che, anche se fatta in nome di un approfondimento, risulta spesso una diseconomia e nasconde il convincimento che l’alunno debba accumulare conoscenze, secondo il concetto di alunno “cisterna”. Gardner in “Sapere per comprendere” scrive: “Nel tempo la maggior parte delle scuole ha enfatizzato l’importanza di accumulare una notevole quantità di conoscenze apprezzate dalla società. L’insegnante fa lezione e lo studente legge il manuale; in tal modo le conoscenze vengono assorbite, assimilate e poi esibite”. Questo può essere definito automatismo cognitivo che è una disfunzione del nostro sistema scolastico. Vandevelde (“Il mestiere della scuola oggi”), interrogandosi sul fine dell’interrogazione per i docenti, sosteneva che l’unico fine era la restituzione dell’appreso.
Il nozionismo e l’automatismo cognitivo si fondano sulla memorizzazione e sull’apprendere e non sul comprendere dice Gardner, il quale prosegue ricordando che fin dall’antichità c’era un modo alternativo di educare; per i maestri educare significava proporre questioni, stimolare l’analisi delle soluzioni alternative e impegnare il discepolo a costruire la propria conclusione personale ( i dialoghi socratici ). La disfunzione esistente ne porta dietro un’altra, che è quella dell’esaustività dei contenuti proposti: trattare il maggior numero possibile di argomenti. Il bravo insegnante è stato considerato per anni colui che “finiva” il programma, magari già alla fine di aprile, per poi fare il ripasso. L’esaustività non ha più senso. E. Cresson sostiene che un giovane non ha bisogno solo del bagaglio culturale, ma del potenziale cognitivo. Il potenziale cognitivo è la capacità di procurarsi le conoscenze, di apprendere a conoscere di imparare ad imparare (Bruner, Feuerstein, Vigoskj).
Già Seneca, rispondendo a Lucilio che riferiva al suo maestro, e forse con orgoglio, delle sue numerose letture, lo ammoniva e lo invitava a selezionare alcune cose e ad approfondirle perché: nusquam est qui ubique est. Come ovviare a tale situazione? La risposta è già implicita nell’analisi in cui Gardner fa riferimento al mondo classico: essenzializzare i contenuti dell’insegnamento. Ricercare cioè i contenuti irrinunciabili e concentrarsi su di essi evitando l’assillo di accumulare conoscenze nella mente degli alunni. Occorre un’organizzazione dei curricoli improntati al criterio della progressività: si pensa ad un curricolo unico dai 3 ai 18 anni, in modo da evitare sovrapposizioni di contenuti. E’ necessario in modo particolare una organizzazione dei curricoli improntata principalmente sui saperi procedurali, sui “nuclei fondanti”, sui “concetti-chiave”.
La scuola ha, così, la duplice funzione di fornire a tutti un nucleo di conoscenze essenziali riorganizzate intorno a concetti-chiave e di indirizzare il soggetto a comportamenti intellettuali nell’azione di formazione. A questo si vuole tendere con i nuovi curricoli o almeno con un modo nuovo di fare scuola. Una scuola dunque rispondente alle esigenze del tempo, alle incertezze, al crollo del progresso garantito, agli innumerevoli scacchi delle previsioni economiche. Una scuola che trasmette la conoscenza storica che a sua volta serve non solo a riconoscere i caratteri, nello stesso tempo determinati ed aleatori, del destino umano, ma anche ad aprirci all’incertezza del futuro. Prepararsi all’incertezza vuol dire sforzarsi di pensare bene, rendersi capaci di elaborare ed usare strategie, fare,infine, con tutta coscienza le nostre scommesse. Pensare bene vuol dire praticare un pensiero che si sforzi senza sosta di contestualizzare e globalizzare le sue informazioni e le sue conoscenze, che lotti contro l’errore e la menzogna, ma significa anche essere coscienti dell’ecologia dell’azione. Importante a proposito è la strategia che, come il programma, si stabilisce in vista di un obiettivo, ma che differentemente dal programma, che ha bisogno di condizioni esterne stabili, riunisce le informazioni, le verifica, modifica le sue azioni in funzione di informazioni raccolte e dei casi strada facendo. Fino ad oggi tutto il nostro insegnamento ha puntato e teso al programma, mentre la vita ci richiede strategie e, se possibile, anche serendipità ed arte. La strategia porta con sé la consapevolezza dell’incertezza che dovrà affrontare e comporta quindi una scommessa. La scommessa dovrà essere fatta con coscienza piena, altrimenti porta alla rovina. La scommessa è l’integrazione dell’incertezza nella fede e nella speranza. Ma la fede e la speranza non è di tutti. K. Marx in una delle sue tesi su Feuerbach si chiedeva ”Chi educherà gli educatori?” Saranno pochi coloro che animati dalla fede nella necessità di riformare il pensiero avvieranno la rigenerazione dell’insegnamento. Saranno coloro che hanno già in sé il senso della loro missione. Freud sosteneva che ci sono tre funzioni impossibili per definizione: educare, governare, psicanalizzare. Morin ritiene che queste siano molto più che funzioni o professioni. Il carattere funzionale dell’insegnamento lo riduce ad impiego, quello professionale porta a ridurre l’insegnante ad esperto. L’insegnamento invece ha il dovere di andare oltre la funzione, la professione, la specializzazione. Deve ridiventare compito di salute pubblica: missione. Una missione di trasmissione. La trasmissione richiede competenza, ma anche arte, amore, “eros”, come affermava Platone. Amore per la conoscenza e l’allievo. La missione presuppone la fede, la fede nella cultura e nella mente umana. Se non c’è amore, passione, non c’è trasmissione di saperi. Si assiste, di contro, al disorientamento dei giovani, alla loro dispersione.

Elevato tasso di dispersione scolastica.
La dispersione scolastica già a livello quantitativo ci preoccupa. Rispetto agli altri paesi europei, in percentuale, sono pochi i ragazzi che arrivano al diploma. Noi abbiamo un dato certo: il 35% di giovani si disperde ed esce dal sistema scolastico senza conseguire il titolo finale di istruzione secondaria di secondo grado. La dispersione quantitativa è palese, evidente, oggettiva ed inconfutabile. Ma preoccupante è anche la dispersione qualitativa. Ad eccezione della scuola primaria, le indagini sulla qualità degli apprendimenti degli alunni nel segmento secondario ci pongono in una posizione fortemente penalizzante. Siamo di fronte alla dispersione latente dello studente che quando esce dal sistema scolastico si disperde, non trova realizzazione perché non ha gli strumenti per potersi orientare e realizzare. Oggi corriamo il rischio di conoscere un nuovo analfabetismo, non quello strumentale ( non saper leggere e scrivere) e neppure quello funzionale ( non comprendere ciò che si legge), ma quello conoscitivo: l’individuo sa leggere e scrivere, comprende ciò che legge e scrive, ma non possiede gli strumenti cognitivi per procurarsi di volta in volta le conoscenze di cui ha bisogno. Può diventare un disperso sociale anche l’alunno scolasticamente positivo perché non conosce le modalità di inserirsi nel tessuto sociale. Questa è una dispersione nascosta di cui la scuola non si è mai occupata. Alla cura di questa malattia, in verità molto grave, sono finalizzate tutte le innovazioni proposte ed in modo particolare l’innalzamento dell’obbligo di istruzione fino a 18 anni. Con la legge 30/2000 (Riordino dei cicli) l’obbligo rimarrà per sempre per nove anni e cioè fino al termine del biennio della scuola secondaria, ma se dopo gli anni obbligatori, il giovane decide di non proseguire gli studi è tenuto, fino a 18 anni, a frequentare corsi di formazione professionale e/o di apprendistato. L’accorciamento di un anno di scolarità (diciotto anni complessivi rispetto agli attuali diciannove), viene compensato dall’obbligo formativo, previsto comunque fino al diciottesimo anno attraverso un percorso formativo integrato. Il sistema formativo integrato prevede che una scuola possa offrire agli allievi di frequentare contemporaneamente la formazione professionale e di conseguire anche due qualifiche: il titolo della maturità e la qualifica professionale anche in tempi diversi attraverso il riconoscimento dei crediti accumulati nel corso degli anni. L’innalzamento dell’obbligo di istruzione e dell’obbligo formativo fino a 18 anni e soprattutto l’integrazione tra i due sistemi rappresentano le iniziative finalizzate al contenimento della dispersione scolastica.Queste sono le principali disfunzioni che vengono addebitate al sistema scolastico. L’innovazione ha ragione di esistere nel momento in cui vuole eliminare le disfunzioni dell’attuale sistema che sono verificabili sia a livello empirico sia a livello scientifico.

I cambiamenti necessari.
La società della conoscenza, del navigare a vista, come recita il “Libro Bianco” di E. Cresson, richiede una scuola autonoma, libera, flessibile, innovativa. Se è luogo deputato alla trasmissione del sapere, dunque all’apprendimento, la scuola non può disconoscere che apprendimento, inteso come modificazione del comportamento, significa inevitabilmente cambiamento.

L’uniformità della proposta di educazione e di istruzione.
A proposito Gardner sostiene che le scuole di tutto il mondo sono state da sempre caratterizzate dall’uniformità dell’educazione proposta, sia dal punto contenutistico, che organizzativo, che metodologico, che delle terminalità (obiettivi-traguardi) da raggiungere. Una scuola sì fatta, che richiede a tutti lo stesso standard, altrimenti scatta la sanzione della bocciatura, è stata caratterizzata dal principio egalitario dell’istruzione e dell’educazione, che rappresenta uno strumento di giustizia sociale. Tale scuola ha consentito a tutti le stesse opportunità, discriminando poi nei risultati. L’uguaglianza delle opportunità, rivendicata dalla riforma degli anni 70, invero si è limitata all’uguaglianza del diritto di accesso a scuola. Il timore di perpetrare discriminazioni sociali in quello che è riconosciuto come diritto inscritto nell’uomo, il diritto all’istruzione, ha comportato in effetti disuguaglianza di risultati, poiché gli studenti sono stati considerati come se fossero tutti uguali, caratterizzati dagli stessi ritmi, dagli stessi stili, dagli stessi interessi etc. G. Allport, grande teorico della personalità, afferma, invece, che nessun uomo è sosia. La persona umana è contraddistinta da tratti di universalità, presenti in tutte le razze, da tratti di singolarità, di similarità e di distinzione. Per dirla con Don Milani “l’ingiustizia più grande consiste nel far parti uguali fra disuguali”. L’uniformità delle proposte educative è una grande disfunzione sia a livello socio-pedagogico, sia cognitivo. Gardner parla di intelligenze multiple, ognuna delle quali si esprime in un modo particolare. L’uniformità risulta poi essere una disfunzione anche a livello pedagogico e psicologico. Erikson in Gioventù e crisi di identità sostiene che l’identità si costruisce attraverso due processi: 1) l’integrazione con l’altro cercando di assumere i comportamenti, le caratteristiche, le peculiarità dell’altro (la personalità si forma attraverso l’identificazione con l’altro); 2) la distinzione dall’altro acquistando la coscienza di avere l’identità di se stessi, altrimenti si è gregge (si ha l’identità collettiva, ma si possiede la percezione di sé nel momento in cui si individuano caratteristiche proprie).
Un’educazione uniforme, troppo omogenea, non risponde dunque al bisogno psicologico di identità personale.

Portfolio e percorso formativo personalizzato.
E’ necessario dunque cambiare. E’una responsabilità storica troppo grande lasciare le cose così come sono. La necessità al cambiamento è stato ravvisato ancora nell’ autonomia conferita alle scuole, che prevista dall’art. 21 della legge 59/97, dopo tre anni di sperimentazione, con il D.P.R. 275/99 è entrato a regime. E allora in che modo l’autonomia vuole combattere l’uniformità della proposta educativa? Come si può rispondere alla singolarità di ciascuno studente, in quanto persona? Con un curricolo d’Istituto che trovi spazio sia nella quota del 15, 20, 30%, riservata al curricolo locale, sia nell’ampliamento dell’offerta formativa (art.9 del regolamento L 275/99). Il curricolo costituisce lo strumento per rispondere alla singolarità della persona umana, alla pluralità delle intelligenze multiple. La risposta all’uniformità è la pedagogia della diversità. L’autonomia organizzativa e didattica è funzionale alla pedagogia della diversità. Oltre a rispondere a livello di assetto disciplinare ed organizzativo, si può dare una risposta uniforme anche a livello personale attraverso la personalizzazione dei percorsi formativi e l’introduzione di quel prezioso strumento quale è il porfolio o libretto formativo del cittadino. La scuola dell’autonomia deve muoversi all’insegna della centralità del soggetto che apprende con la sua individualità, con i suoi ritmi, con le sue peculiarità, con la rete di relazioni che legano la sua famiglia ai diversi ambienti socio-culturali di provenienza. Ne scaturisce la necessità di avviare strategie di flessibilità didattica e organizzativa e momenti e modelli di personalizzazione dei percorsi formativi che devono essere certificati. La capitalizzazione delle varie esperienze d’istruzione e di formazione da parte di ogni individuo, nell’arco della propria scolarizzazione ed attività lavorativa, costituisce uno dei capisaldi del nuovo sistema di personalizzazione e di integrazione dei percorsi formativi, così come va profilandosi nei paesi più avanzati. Pertanto il portfolio o libretto formativo del cittadino costituisce un modo personalizzato di documentare il curriculum di ciascun soggetto, le competenze acquisite, i crediti formativi riconosciuti sia per l’inserimento nel mondo del lavoro, sia per il conseguimento di altri titoli di studio. La sua valenza sta essenzialmente in un nuovo modo di concepire il rapporto insegnamento/apprendimento, che deve essere basato su un impianto autenticamente orientativo, capace di individuare e coltivare vocazioni, carismi, potenzialità dei giovani, tanto da condurli gradualmente verso il successo formativo. Così la certificazione costituirà l’apice di un complesso percorso formativo e procedimento di valutazione e di autovalutazione. Il portfolio prevede: 1) una sezione dedicata alla valutazione, che registra analiticamente e per aree disciplinari le conoscenze, le competenze, i crediti, i debiti maturati, le azioni di sostegno e/o recupero individuate attraverso l’elaborazione di un curriculum personalizzato da monitorare frequentemente con l’alunno stesso; 2) una sezione dedicata all’orientamento, relativa alla conoscenza che l’alunno ha di se stesso, soprattutto in merito al suo modo di affrontare lo studio, di imparare a riflettere sulle motivazioni e sugli atteggiamenti con cui affronta gli impegni scolastici, alle difficoltà di apprendimento che supererà con il docente tutor; 3)una terza sezione contenente una raccolta di materiali, significativi e realizzati dal discente, scelti con criteri di selezione individuati da lui e concordati con gli insegnanti. Nell’elaborazione del portfolio il docente e il discente devono: 1) chiarire le ragioni per la compilazione del fascicolo; 2)ipotizzare e concordare le modalità per impostarlo e gestirlo e il luogo in cui conservarlo. Il docente deve anche informare sulle attese che nutre nei riguardi del lavoro e dell’impegno dei suoi discenti. Il portfolio, che documenta la personalizzazione del percorso formativo dello studente, è compilato dal docente-tutor in collaborazione con il team-docenti che si fa carico dell’educazione e degli apprendimenti dell’allievo, sentendo i genitori e gli alunni stessi, chiamati ad essere consapevoli e protagonisti della loro crescita.
La personalizzazione dei percorsi formativi è una problematica forte, anche se Bruner sostiene che con metodi e strumenti adatti si può insegnare qualunque cosa a qualsiasi età. Dice ancora Gardner: “Un’ educazione individualizzata è forse più giusta: essa non privilegia un certo tipo di intelligenza, ma si adegua alla fisionomia intellettuale di ogni studente, né persegue l’obiettivo di far assomigliare l’individuo agli altri membri della comunità. Diversamente dalla prospettiva lokiana di plasmare la persona secondo i disegni della comunità, la visione rousseauiana mira a sviluppare e a consolidare le inclinazioni naturali dell’individuo”. Quindi l’uniformità può riguardare le finalità, ma i percorsi devono essere differenziati.

Creazione 7/02/2006

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