giovedì 23 aprile 2020

Giosuè Carducci  (prima parte)
Aula in cui Carducci insegnava
In questo articolo tratteremo di  Giosuè Carducci, del poeta giambico e barbaro, dell’erudito inappuntabile, dell'insegnante carismatico, del conservatore sovversivo (come lui stesso si definiva) ma più di ogni altra cosa racconteremo la sua avventura umana.

Giosuè Carducci fu definito il "Vate della Terza Italia" per la sua poesia eroica e per il prestigio che gli fu riconosciuto dopo l'Unità del Regno d’Italia. Fu anche critico e studioso.
Nacque a Valdicastello, frazione di Pietrasanta, in Versilia, nel 1835 dal medico condotto  Michele Carducci e da Ildegonda Celli. Trascorse l'infanzia a Bòlgheri , nella Maremma pisana, dove il padre fu trasferito.

Così scrive Carducci ad Angelo De Gubernatis il 14 gennaio 1877: “Nacqui il 27 Luglio 1835 in Valdicastello di Versilia. A tre anni lasciai la patria, e fui sotterrato nelle maremme pisane. A otto anni cominciai a studiar latino. M'insegnava mio padre. L’applicazione assidua su gli autori latini a cui mi costringeva  fu quella che in seguito mi fece riuscir qualche cosa nelle scuole di Firenze. A 12 anni spiegavo Virgilio e, sapevo a mente  i primi 4 libri delle Metamorfosi. Le febbri maremmane che a 70 anni vennero a visitarmi e mi tennero compagnia per due annate in sempre più m'infervorarono alla lettura di cui ero passionatissimo. Da bambino leggevo e leggevo, con un fervore con cui non ho mai letto romanzi, la Iliade tradotta da Monti e l'Eneíde dal Caro. A 13 anni avevo letto questi due poemi 4 volte, e 3 volte il Tasso.  L’Ariosto, da bambino non potetti mai leggerlo. Ma la rabbia con cui leggevo Omero, Virgilio e [il] Tasso è inesplicabile. Fin quando la febbre mi ardeva tutto, io volevo il Tasso e i miei delirj eran sempre di battaglie. A 11 anni presi l’Alighieri, lessi in un giorno (e mi ricordo era una domenica d'estate) tutto l'Inferno. Intesi poco, ma quella dura e muscolosa espression di verso mi rapiva. Il Purgatorio e il Paradiso però non li lessi. Con più avidità leggevo storie di qualunque genere si fossero e, la Storia universale del Cantù, che ora leggo tanto malvolontieri, era allora la mia prediletta ( …)  Al fine, le storie romane e quella a me direttissima, la Disfida di Barletta, e le poesie di Berchet che io sapevo tutte a mente a 11 anni mi avevan  pieno del furore della libertà. Per cui  io disposi, e me ne ricorderò sempre, fra miei fratelli e in pochi compagni una Repubblica, e si faceva  magistrati e monete di carta ed avevamo scelto le nostre province fra quei boschi di maremma, e tutto con nomi classici, Arconti, Consoli, mine, talenti, comizi, province galliche, province libiche, colonie. E combattevamo spesso con sassi e bastoni, gli uni Romani, Galli e Africani gli altri, gli uni Ghibellini, gli altri Guelfi; ed io volevo essere sempre romano o guelfo. Al fine vennero le convulsioni politiche del ‘46 e ‘47. Il furore dell'entusiasmo era veramente inesplicabile in un fanciullo di 13 anni. Ma io, sempre più infervorato dalla lettura della rivoluzione francese, sognavo le repubbliche, e fui ritrosissimo ad applaudire Principi e fui il primo a maledirli. Nella primavera del ‘48 passai da Bolgheri a Castagneto.”


2° Casa di Strada maggiore - Bologna

La Maremma fu il luogo che spesso tornò nella sua lirica "dolce paese, onde portai conforme / l'abito fiero e lo sdegnoso canto ". La famiglia Carducci rimase a Bòlgheri fino al 1849, quando si trasferì a Castagneto e poi  a Firenze.
Dunque fin da bambino Carducci si infiammò di amore per i classici e per la repubblica, a cui si votò coinvolgendo chi incontrava, i suoi studenti, ad esempio. L'insegnamento, per Carducci, sempre fu cosa sacra, da esercitare non solo con amore e con zelo, ma con la coscienza che quel particolare officio fosse l'espressione di un dovere, il compimento quotidiano di una missione.  A questo Carducci dedicò la propria esistenza, non con proclami in aula, ma con l'educazione agli studi severi, impartita prima a se stesso e poi agli scolari. Quando arrivò a Bologna, il 10 novembre 1860, Carducci trovò una città moderna, “stupenda”. Più di ogni altra – più di Pistoia o Firenze, di San Miniato o Pisa – Bologna offriva al giovane professore le giuste opportunità per il perfezionamento dell’uomo e del cittadino, del poeta e dell’educatore.
Casa Carducci
Si laureò nel 1856 alla Scuola Normale di Pisa. Insegnò subito dopo a San Miniato. Nel 1859 sposò Elvira Menicucci, dalla quale ebbe quattro figli: Dante, Bice, Laura e Libertà.  L’anno dopo Terenzio Mamiani, ministro dell'Istruzione,  gli conferì  la cattedra di Letteratura Italiana presso l'Università di Bologna.
La morte del fratello Dante, suicida, e poi del padre costrinsero Carducci a provvedere al mantenimento della madre e del giovanissimo fratello Valfredo e a dedicarsi esclusivamente all’insegnamento e alla poesia. In questo periodo compose le liriche comprese in "Levia gravia" (1861 - 1871) e in "Giambi ed epodi" (1867 - 1872).
La libertà della quale Carducci fu religioso cultore era, innanzi tutto, una libertà di pensiero, di temperamento, un’insofferenza verso ogni forma di costrizione. Per questo si trovò non di rado sotto processo. A San Miniato fu «sottoposto a seria e autorevole ammonizione», invitato «a comportarsi d’ora in avanti nei luoghi pubblici in quel modo prudente e tranquillo come deve un buon cittadino e come più specialmente si esige nella posizione sociale, in cui egli è costituito».  Veniva inoltre accusato di essere «indifferente in fatto di religione», con un’accusa che, nella Toscana granducale, poteva condurre lontano, perfino all’esclusione dall’insegnamento. A chi, come Pietro Fanfani, lo accusava di essere un «giovine di 21 anno che non fa professione d’anacoreta», rispondeva sdegnato:  «Da codesta frase  così industremente disposta, così industremente colorita, traluce un non so che di orge, di bische, di lupanari. Sappi dunque che un giovine dal Real Governo reputato a 18 anni per non indegno di esser tenuto a studio di filosofia e di filologia, e a 21 dichiarato idoneo a insegnar greco, latino, toscano e filosofia e storia, ne’ biliardi e nelle osterie e ne’ bordelli non può aver conversato gran tempo. E il Carducci come cittadino non ha adulato mai nessun partito, ma neppur mai ha barattato bandiera, come non si è mai strisciato a nessun potente per fame o di nomea o di pane, benché neppur questo egli abbia sicuro, egli miserabile ma libero e sincero uomo. E basta: ché mi pesa parlar più oltre di me: ma talvolta dalla bassezza di chi ti circonda sei costretto a  farti basso anche tu».

A Bologna, per le sue posizioni politiche,  venne minacciato dal Ministro della Pubblica Istruzione di trasferimento a Napoli, a insegnarvi latino.
La regina Margherita di Savoia
Dopo la nomina all'Università di Bologna il giovane professore si trasferì (1860) con la madre e con la moglie nella città che più di ogni altra avrebbe amato e nella quale avrebbe vissuto, come scriverà ad Adriano Lemmi molti anni più tardi, "la vita vera". 
Per Carducci iniziò una nuova stagione, ove, con crescente autorevolezza, si affermò il suo ruolo di poeta, di educatore e costruttore dell'identità nazionale.  Nel frattempo, amicizie e affetti si intrecciarono agli studi e alla passione politica, si ché di questa e di quelli sostennero lo slancio e ne resero il fervore con una nota di schietta umanità.
Di Carducci ricordiamo queste parole:  «Noi viviamo in un tempo d’accomodamenti così graziosi, di silenzii così prudenti, di pause così puntuali, di combinazioni così sottili, d’educazione così squisita, che la maggior difficoltà nel commercio con gli uomini non è di cattivarsene i favori, ma di capirne il pensiero e la coscienza. Nessuno è nemico di nessuno. Tutti per qualche verso ci  compatiamo. […]. Tutt’è buono, tutt’è bello e perciò anche tutt’è lecito. Le ribellioni sono giudicate prima di cattivo gusto, poi dannose per i ribelli, incomode per gli spettatori dattorno. Tutt’i pagamenti si fanno in moneta spicciola: i grandi valori non hanno corso».

FONTI: CARDUCCI, VITA E LETTERATURA. DOCUMENTI, TESTIMONIANZE, IMMAGINI
A cura di Marco VEGLIA
Casa Carducci Bologna
Casa Ed. Rocco Carabba



Continua la narrazione dell’avventura umana di

Giosué Carducci  (seconda parte)
Nel maggio del 1860 mille giovani patrioti guidati dal Generale Garibaldi compirono la grande impresa: la spedizione dei Mille. Anche Giosuè partecipò alla lotta, impugnando la più efficace delle sue armi: la poesia. Al poeta però sarebbe sempre restato un rimpianto: «Oh se le sventure non coglievano la mia famiglia anzi tempo, ed avessi potuto fare anch’io qualche cosa (e non solo scribacchiare!) sarei stato più contento più gioioso e anche avrei potuto far meglio in letteratura; perché la vita vien solamente dall’opera, dall’opera ardente e dal pericolo e dal contrasto. In questa vita che meno ora tutto è gelo, gelo la cattedra, e gelo l’uditorio, gelo io stesso. Al diavolo!»
Ferdinando Cristiani, garibaldino e suo grande amico, così gli scriveva il 23 agosto 1860: “Caro Giosuè, due sole parole per significarti che questa mattina alle ore 5 sono arrivato a Palermo. Domani parto alla volta di Milazzo dove appena giunto sarò alle fucilate. Dunque se fra un mese almeno non vedi più mie lettere sai quello che mi sarà toccato. Dunque abbiti  mille e mille baci. Se tu vedessi, caro Giosuè, che spettacolo sublime è il vedere migliaia e migliaia di scelti giovani con le loro bluse scarlatte, cappello alla calabrese, percorrere giulivi e festanti le vie di Palermo. Evviva dunque il prode Generale, unico e vero salvatore d’Italia.”
All’indomani dell’Unità d’Italia, la classe dirigente, e con essa la Monarchia costituzionale, apparvero a Carducci inadeguate al loro  compito storico e, peggio, assoggettate alla Chiesa.  A Roma, contro Pio IX non si poteva andare «che con la rivoluzione».
L’Italia che Carducci aveva sognato era niente senza Roma capitale; e la politica conservatrice della Destra accendeva nuove ire e nuovi sdegni. A Goffredo Mameli, morto per la Repubblica romana del 1849, Carducci dedicò alcune tra le pagine più commosse e appassionate, facendone il primo esempio di culto laico della Terza Italia, per un Risorgimento che fosse vissuto come religione civile: “Tu cadevi, o Mameli, con la pupilla cerula fissa a gli aperti cieli, tra un inno e una battaglia cadevi;  e come un fior ti rideva da l’anima la fede, allor che il bello e biondo capo languido chinavi, e te, fratello,copriva l’ombra siderea di Roma e i tre color.
Amici pedanti: Gargani, Carducci, Chiarini
Carducci,  propugnatore dell’ideale repubblicano, dava certo fastidio alla classe politica dirigente. Quando, nel 1867-68, dopo l’orrore di Mentana, Carducci si espose sempre più politicamente, finì col subire procedimenti disciplinari. La Prefettura lo teneva sotto osservazione, ed esprimeva al Ministro il parere che egli dovesse essere allontanato da Bologna. Ma Giosuè non si lasciò intimidire, né fu disposto a scendere a compromessi.
Nella poesia Enotrio cantò il ventennale  dell’8 agosto 1848: «La santa Libertà non è fanciulla da poco rame […]Marchesa ella non è che in danza scocchi da’ tondeggianti membri agil diletto,il cui busto offre il seno ed offron occhi tremuli il letto …».
Il 1870, per Carducci, non fu solo l’anno della redenzione di Roma, ma anche l’anno dei lutti familiari: il 3 febbraio moriva Ildegonda Celli, la madre. Giosuè ne patì al punto che non ne scrisse neppure un verso. Venne poi l’autunno, e il 9 novembre vi fu un altro dolore: il più grande della sua vita. I medici avevano fatto di tutto, ma non riuscirono a salvare il piccolo Dante, il figlioletto, che, caduto «in un sopore quasi brutale, rotto di quando di quando dalle smanie della febbre e da qualche intervallo di conoscenza in cui chiamava la mamma», lo lasciava per sempre. Ma occorreva riprendere il lavoro, e continuare a battersi per  «le grandi irradiazioni delle idee che gli uomini savi chiamano utopie».
Dopo la morte di Dante, Giosuè mostrò segni di insofferenza e irrequietezza: la tragedia portò con sé la necessità dell’oblio. Una nuova e inaspettata primavera gli fu offerta, nel corso del 1871, dall’irruzione nella sua vita di Carolina Cristofori Piva (Lidia), moglie di un ufficiale in congedo dall’esercito regio, già garibaldino. Con lei Carducci avviò un colloquio epistolare tra i più celebri e suggestivi dell’Ottocento. E la svolta contagiò anche la poesia: l’esperienza barbara,  vera e propria rivoluzione nella tradizione metrica e poetica italiana, per l’allargamento a territori esistenziali e letterari mai esplorati prima, per le suggestioni wagneriane.
Il tempo dei privilegi è passato…  8 agosto 1873: il democratico Carducci, per l’anniversario della cacciata degli Austriaci da quella che ormai era, a tutti gli effetti, la sua città, pronunciò un discorso appassionato alla cerimonia di premiazione dei migliori allievi delle scuole serali, che si tenne nella chiesa sconsacrata di Santa Lucia. Elogiò i sacrifici degli operai e degli agricoltori, che avevano trovato il tempo e l’energia per studiare dopo il duro lavoro, invocò commosso la discesa della «luce spirituale» dell’istruzione nella società civile,  e annunciò la fine del tempo dei privilegi.
Tra il 5 ed il 7 novembre del 1878 Umberto I e la giovane regina Margherita di Savoia giunsero a Bologna, accolti da festosi cortei popolari, e il 6 novembre fecero visita all’Università dove, a rendere omaggio assieme al corpo accademico, c’era Giosuè Carducci. Guardando in quegli anni alla situazione politica italiana ed europea, Carducci presagiva tempi duri, che però non spensero nel suo animo le aspirazioni di palingenesi. «Brutti tempiscriveva al Chiarini nel luglio 1877E non è proprio che questo sia un lamento. L’Europa è marcia, è marcia, marcia: e così deve essere, necessariamente: putrescat ut resurgat»
La corruzione si attacca anche ai migliori, da Lettere di Carducci - Lettera di Carducci a Dafne Gargiolli del 24 ottobre 1883:  
Gentilissima Signora,
 se Le dicessi che io mi trovo contento di questa vita romana, Le direi una gran bugia. Lo scirocco e la pioggia, la camorra e le chiacchiere, se non mi fiaccano, mi affrangono: il caldo umido, morale e fisico, non mi si affà. Amo perdermi e dimenticarmi lungo l’Appia e la Flaminia, o sul Gianicolo, o per il deserto tra il Foro e le Terme di Caracalla e il Laterano: ma Piazza Colonna e i Ministeri e il palazzo della Prefettura mi annoiano e peggio. Desidero Bologna, e sospiro ai silenzi verdi di San Leonardo, dove imagino che mi troverei benissimo per tradurre Tibullo, se però Ella non volesse costringermi a far versi, «mestiere esecrabile a un italo cuor». […]  All’amico nostro, per tornare a lui, nocque la lontananza di Roma:  i lontani qui sono dimenticati e morti: le lettere non giovano, non le leggono o le scordano tutte per intiero dopo la lettura; promettono, e poi, senza pur volerlo, non attengono o fanno il contrario di ciò che avevano promesso. Non c’e autorità che tenga; nessuno vale per questa povera gente di ministri, se non i deputati con lo spaventacchio dei voti. Il potere legislativo invade, intralcia e guasta la macchina dell’esecutivo. Le «piovre» dei cinquecento deputati coi cinquecentomila (metto una riga di corrispondenza; ma sono più centinaia di migliaia) figliuoli, nepoti, mogli, amanti delle mogli, mantenute, amici delle mantenute, ruffiani ed elettori, succhiano tutto, empiono tutto, imbrattano tutto. La corruzione si attacca anche ai migliori. Fan delle brutte azioni senza accorgersene, in buona fede. Ahi, signora, parliamo d’altro; o meglio non parliamo più: il bianco della carta è finito, ma non la fede. Io seguiterò ad occuparmi; per i desideri giusti di Carlo speriamo di arrivare ad ottenere qualche cosa. Scrivendole così a lungo pur di cose spiacenti, sfogandomi, mi pare di star meglio, cioè di esser meno triste. Aspetto la consolazione d’una sua parola, se non armonicamente parlata, scritta elegantemente.”

Egli era divenuto più consapevole dell’urgenza immediata di una unificazione morale della nazione, e di un ulteriore impegno per il processo di nation building. Come larga parte degli uomini del 1860, egli si volgeva dunque (pur restando un repubblicano all'antica) alla monarchia, in cui poteva scorgere una garanzia efficace contro il clericalismo, da un lato, e contro le forze socialiste dall’altro. L’incontro con i Reali a Bologna suggellò  una nuova alleanza allo scopo di accelerare il processo di modernizzazione del paese e di portare a compimento le riforme necessarie.
Quando giunse la grande ora, il 16 febbraio 1907, a pochi giorni dal premio Nobel  che ne consacrò la vita e l’operosità, Giosuè poteva ancora infondere, anche nel silenzio della morte, un insegnamento imperituro.
https://it-it.facebook.com/ilsorpassomontesilvano/


FONTI: CARDUCCI, VITA E LETTERATURA. DOCUMENTI, TESTIMONIANZE, IMMAGINI
A cura di Marco VEGLIA
Casa Carducci Bologna
Casa Ed. Rocco Carabba


Giosué Carducci (terza parte)
Dopo la morte di Lidia (Carolina Cristofori Piva), il cinquantacinquenne Giosuè, nonostante la paresi della mano destra, che lo aveva colpito nel 1885, si sentiva ancora vivo e pronto ad assaporare un nuovo soffio di giovinezza. Il 5 dicembre 1889 la ventenne poetessa Annie Vivanti si rivolgeva a lui con queste parole «Audacies fortuna iuvat»,  per chiedergli di leggere i suoi versi. Carducci rispose e fissò un incontro. Subito entusiasta di quelle poesie, il 19 febbraio 1890 inviava ad Annie una lettera che sarebbe divenuta la prefazione alla Lirica di Annie Vivanti , 1886-1890 (Treves, Milano 1890).
Nel giugno 1882 Carducci perdeva il secondo padre: Giuseppe Garibaldi e ne improvvisava la commemorazione Per la morte di Giuseppe Garibaldi, scrivendo dell’uomo da lui «più adorato […] tra i vivi»: «Tal qual fu […] [egli] è il più popolarmente glorioso degl’italiani moderni, forse perché riunì in sé le qualità molteplici della nostra gente, senza i difetti e i vizi che quelle rasentano o esagerano o mèntono».. Nel 1880 gli aveva dedicato una «barbara» in cui l’eroe, nella sconfitta, si sentiva tutt’altro che vinto, giacché sapeva che la storia era dalla sua parte.
Nel dicembre 1882, Carducci si schierò apertamente di fronte ad un episodio che fece discutere: a settembre il patriota Guglielmo Oberban, accusato di aver attentato alla vita dell’imperatore d’Austria, era stato arrestato e giustiziato con l’impiccagione. Victor Hugo, «il grande poeta», ne aveva assunto la difesa, e da Bologna il professor Carducci aveva ribadito che il cospiratore non era un condannato, ma un «confessore e un martire della religione della patria» nella rivendicazione dell’italianità di Trento e Trieste, colpevolmente ignorata dal governo di Roma.
Nel 1883 si riaccesero gli scontri all’interno della Sinistra parlamentare. In quel clima Carducci si legò a Francesco Crispi, combattente garibaldino, eroe dei Mille, presidente della Camera nel biennio 1876-77, e ad Adriano Lemmi, già membro, dal 1877, della Commissione per la restaurazione delle finanze del Grande Oriente, Gran Maestro aggiunto dopo la morte di Giuseppe Garibaldi e Gran Maestro dal 1885.
Il 12 giugno 1888, per l’ottavo centenario dell’Alma Mater Studiorum, Carducci tenne nel cortile dell’Archiginnasio, alla presenza dei Reali (il Re V. E. III e la regina Margherita, grande estimatrice del poeta)  e di oltre trecento rappresentanti delle università di tutto il mondo, un discorso che Gabriele d’Annunzio ritenne : «tra le più mirabili prose di tutta quanta la letteratura nostra  per magnificenza di stile, per grandiosità di pensiero» e «finezza di sentimento». Quell’«altissima festa dello spirito», come la stampa laica romana definì l’evento, fu un trionfo per l’Università di Bologna e per il professor Carducci che più di ogni altro l’aveva rappresentata: Giosuè vedeva definitivamente consacrata la sua fama europea e internazionale. Con essa, anche Bologna e la sua Università venivano ad essere di nuovo al centro, come lo furono nei secoli, dell’incivilimento della cultura d’Europa.
Il 10 dicembre 1906 Giosuè Carducci ricevette il premio Nobel per la letteratura: aveva cantato l’Italia e saldato l’antichità classica greco latina con i valori dell’Europa contemporanea. Così si rese onore al professore, al poeta Carducci, alla sua voce europea, che aveva iniziato a diffondersi in Occidente e avrebbe continuato a farlo ben oltre le atmosfere della Montagna incantata.
Il Premio Nobel, conferito a Carducci, era il tributo e il sigillo a favore di un vita, quella del grande poeta, dedicata totalmente alla letteratura, alla civiltà italiana ed europea, nel silenzio e nel giubilo, ormai al crepuscolo della propria coscienza di uomo.
L’11 settembre 1855, quando ancora il giovane poeta di Valdicastello doveva approdare alla sua prima esperienza d’insegnante a San Miniato al Tedesco, Niccolò Tommaseo, che vigilava sulla produzione letteraria toscana, non mancò di scrivere al Vieusseux: «Chi è quel Carducci che fa quelle note a Virgilio, dove i raffronti delle traduzioni diventano un bel commento?». Vieusseux, padre dell’ Antologia, così gli rispondeva: «Il Carducci di cui mi domandate è un giovane che non ha ancora 18 anni compiti, figlio di un medico di provincia, protetto ed amato dal bravo Thouar il quale lo avviò agli studi, lo preparò per gli esami, gli avanzò (lui povero) ciò che gli occorreva per fare i suoi corsi universitari a Pisa: giovane ancora rozzo e senza mondo, ma che ha fatto esami stupendi, e che promette assai, moltissimo, pel futuro. Dio voglia conservarlo per l’onore delle lettere italiane. Egli è presentemente in Provincia presso suo padre ad assistere i colerosi come segretario di una commissione di soccorsi. S’egli campa farà parlar di sé». E così fu.
Carducci insegnò all’Università di Bologna per più di quarant’anni. Furono anni di grandi battaglie politiche, ma anche di uno studio intenso e fruttuoso, che lo assorbì quasi totalmente. L’obiettivo principale del magistero carducciano fu quello di formare una nuova classe di insegnanti preparati e pronti a far fronte alle esigenze culturali e linguistiche della nascente nazione italiana, della quale non a torto Carducci fu considerato l’educatore. Secondo Carducci era  necessario distribuire sul territorio maestri che educassero i cittadini “uno a uno”, uniformando i saperi e rafforzando il senso civico, per ispirare e rafforzare il sentimento di appartenenza ad un medesimo Stato. Su suggerimento dell’amico Emilio Teza, Carducci era solito scrivere le sue lezioni, preparate meticolosamente, levandosi prima dell’alba affinché tutto fosse pronto al suo ingresso in aula.
Dopo un anno di esonero dall’insegnamento per l’aggravarsi delle precarie condizioni di salute, Carducci salì nuovamente in cattedra per tenere quelli che sarebbero stati gli ultimi corsi della sua lunga carriera. Nel mese di novembre del 1904 scrisse una lettera al Ministro della Pubblica Istruzione, Orlando, chiedendo di essere finalmente collocato a riposo.
Carducci sentì per Pascoli l’affetto paterno che lo legò a coloro che erano stati suoi scolari. L’Epistolario documenta il sollecito interessamento presso ministri, direttori generali, provveditori agli studi per le aspirazioni, per i bisogni, per i diritti, insomma per la carriera dei giovani che ricorrevano all’aiuto del loro grande Maestro. E Pascoli fruì più volte di tale aiuto. Senza dubbio, nei confronti di Pascoli, l’affetto paterno si mutava in una specie di accorata tenerezza per il temuto traviamento di quel povero figliuolo. Fra il professore  e l’allievo vi fu  tuttavia  sempre un certo disagio, che rese più volte opportuna l’attenta e garbata mediazione di Severino, di cui Carducci si servì anche per comunicare a Pascoli il conferimento della Cattedra.
Pascoli ricevette il paterno investimento della cattedra carducciana con la visita reverente e affettuosa alla casa del Maestro, il giorno stesso della prolusione. Carducci si alzò dalla poltrona per abbracciarlo lungamente, e piangeva di santa tenerezza.
Quell’accoglienza fu il compenso che Giovannino Pascoli aveva sognato per  i patimenti e il lavoro profusi.
Carducci aveva della letteratura e dell’arte un concetto alto, nobilissimo, essa non poteva essere vacua esercitazione di stile ma espressione di sentimento e pensiero. I soggetti trattati hanno tuttora importanza civile, patriottica, umana. Nell’opera di Carducci vive un mondo intero; un mondo di memorie storiche grandiose, di glorie ed eroismi patrii, di aspirazioni a ideali di verità e giustizia. E se Dante descrisse a fondo tutto l’universo, così Carducci ha raccolto tutto quanto di più nobile e alto può infiammare e commuovere la mente e il cuore; tutto al fine di concorrere all’elevazione morale, politica, intellettuale della patria.

FONTI: CARDUCCI, VITA E LETTERATURA. DOCUMENTI, TESTIMONIANZE, IMMAGINI
A cura di Marco VEGLIA
Casa Carducci Bologna
Casa Ed. Rocco Carabba
















lunedì 13 aprile 2020

https://ilsorpassomts.com/2020/04/13/occorre-una-nuova-umanita-autentica-solidale-responsabile-e-meritevole/?fbclid=IwAR3LaNEoZ_b99LhZCuZi-eLa3IP3ITw6a0zuMdgtPMFU2WqWsjI0MMzSPo4
Occorre una nuova Umanità: autentica, solidale, responsabile e meritevole.

Diversi mesi fa, fra i vari articoli, ne ho scritto uno su “La vera bellezza” e un altro “Per riflettere sulla Sanità”.
In questi giorni, come tanti di Voi, seguo attraverso i Media le drammatiche notizie che arrivano dalle regioni del nostro Paese e del mondo, e non posso che riflettere.
Rifletto su quanto l’uomo sia capace di dimenticare, su quanto sia capace di essere ingordo, su quanto non impari dalla Storia dei suoi Padri ed antenati, di come certi talenti e geni non esistano più. E constato come non tutti gli uomini abbiano voglia di maturare e di migliorare … In un passo evangelico di Luca, Lc. 2,14, è scritto: ”beati gli uomini di buona volontà”.
Sull’articolo del maggio 2019, “Per riflettere sulla Sanità”, scrivevo: “Le condizioni di lavoro nei reparti ospedalieri e nei servizi territoriali stanno rapidamente degradando. Il blocco del turnover, introdotto con la Legge n. 296 del 2006, ha determinato una carenza nelle dotazioni organiche di circa 10 mila medici. I piani di lavoro, i turni di guardia e di reperibilità vengono coperti con crescenti difficoltà …” (…) Nelle corsie ospedaliere mancano siringhe, medicinali a fronte dei “bonus” percepiti, oltre al proprio elevato reddito, dagli alti dirigenti per la produttività aziendale. (…) il Codacons di Catania ha annunciato un esposto alla Procura e alla Corte dei Conti: «Perché premiarli, visti i disservizi negli ospedali?» (…) L’articolo 32, comma 1, della Costituzione italiana recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.” Nella realizzazione del dettato costituzionale, tuttavia, i legislatori, i politici devono contemperare gli interessi connessi alla salute con quelli legati alla sostenibilità finanziaria del Sistema Italia. Il diritto alla salute, quindi, deve essere bilanciato con il principio della regolarità dei conti pubblici, anch’esso costituzionalmente previsto nell’art. 81 e implicito nell’art. 97. E’ chiaro che lo Stato deve mirare ad avere i conti in ordine per potersi “permettere” di spendere nei settori di rilievo sociale (…) E i conti sono legati alle entrate. E fra le entrate vi sono le imposte, le tasse, che vanno pagate. Molti cittadini purtroppo non ottemperano ai propri doveri. (…) Con il gettito delle entrate lo Stato finanzia i servizi pubblici di cui beneficiamo: il Sistema Sanitario Nazionale; l’Istruzione; le Forze dell’Ordine; la Giustizia, ed altri servizi”.
Nel periodo nefasto, che attraversiamo, è sotto gli occhi di tutti che cosa significhi non avere pagato giustamente le tasse, non avere contribuito regolarmente al Bene Comune: ospedali inadeguati a proteggere gli affetti a noi più cari (un figlio, una madre, un padre, un fratello). Oggi la casa è in fiamme e non ci sono “pompieri” che possano spegnere l’incendio. Non ci sono “pompieri” poiché non ci sono soldi per pagarli, per investire. Tutti si ostinano ad ostentare, a far festa. Ma quale festa, se non riusciamo a difendere i nostri affetti? Fenomeni di evasione o elusione fiscale hanno ridotto il gettito a danno dello Stato, quindi a danno di tutti, della nostra intera Comunità Nazionale. E ora? Ora attendiamo aiuti. Già gli aiuti … Da parte di Chi? Attendiamo aiuti da parte di chi ha dimenticato di essere stato graziato più di una volta. Sia dopo la Prima sia dopo la Seconda Guerra mondiale. Aspettiamo aiuti da parte di coloro che hanno cancellato ogni memoria, forti della propria tracotanza. E che cosa potevamo/possiamo aspettarci da chi ha negato i forni crematori ad Auschwitz Birkenau? Da chi ha rifiutato di citare la comune matrice cristiana nella redazione della Costituzione dell’Europa Unita? Ora, invece, l’ invisibile “Coronavirus” pone sotto la lente di ingrandimento non solo un’Europa dal respiro culturale modesto e mediocre, quanto un’Europa fatta da mercanti e banchieri avidi e corrotti. E’ un’Europa ipocrita, quella in cui viviamo, che grida allo scandalo se si “addita” qualche personaggio ebreo ma poi decide nuovi “campi di sterminio”. E’ questa la verità e va gridata! Poco più di un anno fa l’allora Presidente della Commissione europea Junker si rammaricava di aver "dato troppa importanza all’influenza del Fondo monetario internazionale" ed esprimeva il suo rincrescimento per non essere stati solidali con la Grecia, ridotta al fallimento! In Grecia chi potrà dimenticare l’umiliazione e le ferite sofferte? Uomini privi di coscienza e consapevolezza!
Poi seguo la Celebrazione della Pasqua dalla Cattedra Sacra di San Pietro e la benedizione “Urbi et Orbi” di Papa Francesco in diretta televisiva e le mie riflessioni si spostano in un altro mondo. Mi tornano alla mente i miei studi in Storia: il vuoto di potere alla fine dell’Impero Romano d’Occidente e il vecchio Papa Leone I, detto Leone Magno, che fermò con il simbolo della Croce l’avanzata del “flagello di Dio”, Attila, assieme a Simone Pietro e Paolo di Tarso, che apparvero in sogno al re degli Unni dissuadendolo dall’attaccare la Città Eterna.

Ora il “flagello”, versione XXI° secolo, è un virus.

Benedette siano le parole del Santo Padre rivolte ad un’Europa indifferente ed egoista! Dovrebbero interrogarsi in molti dopo l’ascolto di Papa Francesco! Benedetto sia quell’anziano Pastore che non demorde, che arranca faticosamente sotto i colpi degli anni e della Storia e che da solo, per strada, osa sfidare il virus, forte della sua fede in Cristo, radicato nel suo Credo. E’ più autentico, lucido e lungimirante Lui, che tutti i potenti Leaders del mondo insieme! Benedetto sia quel Vescovo di Roma che inizia le liturgie con affanno respiratorio e rinvigorisce dopo la Consacrazione del Pane e del Vino, tanto che la stessa voce, dapprima flebile, poi improvvisamente si irrobustisce. Benedetti siano quei luoghi di culto, gloria della Cristianità, ma anche elogio imperituro di quei grandi ingegni che hanno concepito e realizzato architetture e geometrie di incommensurabile valore e insuperabile bellezza in una policromia di marmi, di affreschi, di volte, di sculture, di vetrate, di giochi di luce … da capogiro. Così torno con la mente al mio articolo su “La vera bellezza” pubblicato nel gennaio del 2019, quando scrissi “ (…) per cui il Cristianesimo ha prodotto la più grande bellezza artistica di tutti i tempi, c'è da chiedersi come abbiano potuto i grandi artisti concepire e produrre cotanta bellezza! La risposta è nella Rivelazione del Verbo fattosi Carne”. Già, perché quegli artisti avranno anche avuto personalità discutibili o essere stati al servizio di un Signore o di un Papa Mecenate ma certamente erano tutti animati da un comune e sublime sentire che affondava le proprie radici nella Cultura Cristiana, la quale attraversava tutta la società del tempo fin dal primo Medioevo, come hanno scritto storici di altissimo profilo: Marc Bloch e Arnold Hauser.

E il “nuovo flagello”, il virus, è l’arma di Madre Natura che opportunamente ricorda all’uomo di ravvedersi, di abbandonare consuetudini pagane che disperdono e offuscano la sua coscienza. Occorre una nuova Umanità: autentica, solidale, responsabile e meritevole.












martedì 24 marzo 2020

Stralcio dell'Art. XIV dei Fondamenti della Carta di Fiume
Napoleone Bonaparte
Federico II di Svevia riceve il Sultano al Malik al Kamil