mercoledì 11 marzo 2009

L'orientamento

L’ORIENTAMENTO
Uno sguardo verso il futuro

Nella società conoscitiva il processo educativo continua per tutta la vita, in ragione sia dei progressi costanti in campo scientifico e tecnologico, sia della crescente importanza dei saperi e dei valori immateriali nella produzione di beni e servizi, sia delle spinte alla realizzazione personale.
L’istanza dell’educazione permanente - sottolinea il rapporto all'UNESCO per l’educazione del XXI secolo - deve indurre a riflettere sulla necessità di rive¬dere le caratteristiche della formazione di base e il ruolo della scuola secondaria superiore alla luce dei fondamenti dell'educazione scolastica ed extrascolastica, individuati in: imparare a conoscere, a fare, a vivere con gli altri, ad essere. Tali "pilastri" dell'educazione impongono un impegno di alto profilo alle istituzioni scolastiche rinnovate, nella misura in cui vengono riferiti ad una popolazione scolastica eterogenea, comprensiva di molteplici "diversità".
«Vola solo chi osa farlo», sostiene Sepulveda. Il sistema scolastico, che rappresenta un tassello vitale rispetto al processo di maturazione personale, deve sostenere l’itinerario di scoperta e di realizzazione del SE’, mettendo in campo le risorse educative e didattiche, personali e materiali, che possono essere reperite al proprio interno e nel territorio, prevedendone una sinergica composizione nel Piano dell'Offerta Formativa. Così l'accoglienza si traduce in conoscenza e, attraverso il progetto formativo, diviene accompagnamento che guida l’allievo a "volare" verso il futuro. La responsabilità della scuola, tesa a trasformare "l'esperienza di vita in orizzonte di attesa", assume la de¬nominazione tecnica di "orientamento". La Direttiva 487/97 del MIUR recita che “l’orientamento va inteso come azione formativa mirante a mantenere i giovani in grado di orientarsi in una società complessa, di decidere il proprio futuro (progetto esistenziale, progetto di vita) e di partecipare attivamente allo sviluppo degli ambienti vitali in cui essi scelgono di vivere e di agire”. L’orientamento, sempre nella Direttiva 487/97 del MIUR, diventa una componente strutturale dei processi educativi, non più attività laterale mirata a risolvere situazioni “patologiche”. Pertanto occorre apportare modificazioni nella didattica disciplinare perché diventi “orientativa”. L’orientamento diviene, dunque, risorsa strategica che si esplica in tante attività che, a loro volta, mirano a formare e a potenziare le capacità delle Studentesse e degli Studenti affinché conoscano se stessi, l’ambiente in cui vivono, i mutamenti culturali, socio-economici, le offerte formative, affinché possano essere protagonisti di un personale progetto di vita e partecipare allo studio, alla vita familiare e sociale in modo attivo, paritario e responsabile. Il ruolo svolto dall’orientamento scolastico e professionale è di grande importanza per la crescita di ogni persona in età scolare, ma diviene determinante ai fini della prevenzione della marginalità e dunque della dispersione, di fronte a vecchie e nuove povertà, nonché nella tutela delle fasce deboli della popolazione scolarizzata. Un errato orientamento reca con sé conseguenze più gravi per chi dispone di minori sostegni, soprattutto in caso di espulsione dal sistema formativo scolastico. I giovani, attraverso la ricerca del loro futuro, ricercano se stessi e il significato della propria esistenza.
Prima di delineare sinteticamente alcune dimensioni che rendono il sistema scolastico nel suo complesso orientativo per tutti gli studenti, è bene ricordare che, a differenza di altri Paesi europei come Francia, Svizzera, Germania, l’Italia ha rifiutato l'ipotesi di creare apposite "classi di osservazione" e/o "classi speciali" per allievi che appartengono a gruppi sociali deboli. Occorre allora lavorare coerentemente per rendere la loro frequenza nelle classi comuni significa¬tiva ai fini della promozione dello sviluppo personale.
Nella pro¬spettiva orientativa gli alunni imparano a conoscere meglio se stessi e a saper scegliere quando vengono resi partecipi degli obiettivi da raggiungere; quando sono invitati a scegliere tra una serie di attività di apprendimento quelle meglio rispondenti ai loro inte¬ressi; quando sono messi in condizione di autovalutarsi; quando pos¬sono partecipare a iniziative a carattere interdisciplinare, che antici¬pano le modalità di svolgimento del lavoro adulto; quando imparano a lavorare in gruppo, armonizzando così le differenti attitudini nella realizzazione di un progetto comune; quando acquisiscono un metodo di studio personale; quando vengono loro proposti feedback tempe¬stivi e specifici riguardo ai loro interessi e attitudini.
La scuola può essere tutta orientativa nella misura in cui, nelle sue varie articolazioni - scuola dell'infanzia, primaria e se¬condaria - è in grado di elaborare una progettazione educativa e percorsi formativi personalizzati ricchi di proposte sul piano disciplinare e formativo, che aiutano ogni studente, anche in situazione di difficoltà, a scoprire e a discriminare le proprie attitudini. In particolare, la progettazione non deve escludere l'allievo, anche disabile, dalle esperienze scolasti¬che rivolte alla classe. Dal punto di vista metodologico e didattico è fondamentale che i docenti mantengano una costante sinergia tra attività intellettuale e at¬tività manuale, alternando nel processo di insegnamento proposte di esperienze globali e di applicazione su compiti specifici. Sostiene in proposito Vico: «Quante volte abbiamo osservato alunni instabili, di¬struttivi ed impulsivi pervenire gradualmente al rispetto per le cose dopo l'educazione al lavoro e in seguito alla progettazione e alla esecuzione di un progetto concreto». Soprattutto nella pubertà un’attività impostata attraverso tali accorgimenti metodologici e didattici è idonea a «sollecitare e a fare riemergere nell'alunno automatismi di base e capacità acquisite negli anni della fanciullezza e ormai allo stato solo latente o di atrofizzazione in atto, in seguito al venire meno di motiva¬zioni adeguate, all'accentuarsi di esercizi ripetitivi e alla carenza di prospettive di attività concrete, finalizzate alla produzione di cose belle e utili». Inoltre occorre che i docenti si impegnino ad "attualizzare e contestualizzare" il sa¬pere scolastico, cercando nella realtà ambientale collegamenti e riscon¬tri rispetto alle conoscenze acquisite tramite i libri di testo. In relazione all'età degli allievi, si possono proporre attività di edu¬cazione all'immagine o contenuti di storia dell'arte esclusivamente ri¬manendo all'interno dell'aula scolastica, oppure andando a visitare di¬rettamente mostre, o gallerie, o esposizioni che il territorio offre, eventualmente “rivisitandole”, in seguito, attraverso la rete informatica.
La conoscenza "in situazione" delle molteplici ri¬sorse culturali e ambientali presenti nell'extrascuola è in grado di coin¬volgere globalmente tutte le dimensioni della personalità dell'allievo, favorendo l'incremento della motivazione, sollecitando il consolidamento degli apprendimenti cognitivi e promuovendo l'esercizio del pensiero criti¬co.
Anche il processo di valutazione ha una funzione orientativa, se, relati¬vamente all'area cognitiva, non si limita al censimento delle lacune ma indica all'allievo le condizioni da curare per migliorare l’apprendimento; se definisce i progressi nelle acquisizioni del patrimonio di conoscenze, con riferimento non solo ai contenuti del sapere, ma anche al metodo di studio e ai linguaggi utilizzati. In tal senso costituirà risorsa strategica determinante per promuovere il successo scolastico e formativo. La valutazione ha altresì riflessi positivi sull'intero processo di maturazione della personalità, se favorisce la costruzione di un concetto realistico di sé e di conseguenza se contribuisce a promuovere un’equilibrata vita di relazione e la motivazione verso le future scelte personali.

Nel prefigurare le prospettive del futuro - scolastiche o professionali - occorre tenere conto dell'esperienza formativa pregressa, breve o lunga che sia. Superando i rischi dell’autoreferenzialità, che vedono le istituzioni scolastiche autonome maggiormente esposte rispetto alla scuola tradizionale, è chiaro che ogni grado di scolarizzazione rappresenta un segmento, un tassello, il quale deve collocarsi armo¬nicamente nei confronti dell’iter formativo del soggetto.
Pertanto la progettazione della scuola deve richiamare i docenti all'importanza di mantenere rapporti di continuità educativa, didattica e organizzativa con gli ordini di scuola precedenti per meglio configurare gli studenti nelle loro attitudini, vocazioni, inclinazioni e per meglio orientarli. Un rilievo particolare spetta alla cura della documentazione di passaggio degli allievi. Con ciò si vuole intendere la costruzione e l'aggiornamento di un dossier personale dell'alunno, il portfolio - comprensivo di rapporti, griglie, elaborati, informazioni, provenienti da una pluralità di fonti - che non testimoni la celebrazione di un rito formale, ma fornisca materiali realmente rappresentativi, utili a ricostruire il per¬corso narrativo dello svolgersi dell'identità, ponendo in luce le atti¬tudini e gli interessi. Il portfolio, o libretto formativo del cittadino, costituisce a tutti gli effetti strumento di diagnosi, di prognosi, di valutazione, di certificazione e di orientamento per tutti gli allievi, anche per quelli in situazione di handicap. Tale do¬cumentazione comprende, senza esaurirsi in essi, la diagnosi funzionale, il profilo dinamico funzionale, il piano educativo personalizzato, eventuali progetti di continuità, redatti in modo preciso, analitico, sostanzialmente efficace e non ambiguo. Va inoltre tenuto presente che l'allievo stesso, come i suoi genitori, va interpellato nella predisposizione della documentazione progettuale che lo riguarda tutte le volte in cui ciò si rende possibile e, comunque, in modo si¬stematico, a partire dagli ultimi anni del ciclo dell'obbligo. Ciò comporta che, di norma, la documentazione sia accessibile e fruibile dallo Studente interessato, perché egli possa rintracciare il percorso svolto e rivisitarlo con consapevolezza.
Nell'ambito del portfolio, trova una colloca¬zione privilegiata la testimonianza documentale delle esperienze si¬gnificative e dei crediti formativi e scolastici, che l'allievo matura durante il processo di istruzione e di educazione. I documenti evidenziano le sue inclinazioni, vocazioni ed interessi. Essi suggeriscono indicazioni ai fini dell'orientamento.
Nell'esercizio della loro autonomia, le scuole di ogni ordine e grado dovrebbero prevedere nel piano dell'offerta formativa attività di orientamento da inserire organicamente nei curricoli di studio, valorizzando il ruolo della didattica orientativa e della continuità educativa.
Nella progettazione e nella realizzazione di ciò si potrebbero ipotizzare azioni come:
1 - la realizzazione delle iniziative di orientamento all'interno delle attività curricolari;
2 - l'attribuzione di precise funzioni relative agli interventi da svolgere con l'individuazione dei referenti e delle loro responsabilità;
3 - la formazione dei docenti sui temi dell'orientamento con riferimento all'organizzazione scolastica, alle abilità relazionali nel rapporto educativo, alla didattica orientativa e all'impiego delle tecnologie didattiche;
4 - l'informazione e il supporto alle famiglie e agli studenti, sostegno delle loro autonome iniziative; 5 - le iniziative di alternanza studio-lavoro, di esperienze diverse nel sociale e nel volontariato;
6 - lo sviluppo di iniziative di preparazione e di verifica della scelta degli studi universitari, con
particolare riferimento alle preiscrizioni;
7 - lo svolgimento delle attività complementari di cui all'art. 1, comma 2 del D.P.R. 567/96.
Le azioni vanno progettate sulla base della conoscenza delle caratteristiche dei soggetti da orientare, delle loro motivazioni, degli ambienti sociali in cui le scuole operano; esse vanno integrate con gli interventi mirati a favorire il successo formativo.
Per rendere più efficaci le azioni di orientamento, gli Organi Collegiali potranno adottare articolazioni organizzative, quali dipartimenti disciplinari, gruppi di ricerca e commissioni di lavoro; mentre i Dirigenti Scolastici promuoveranno lo sviluppo di rapporti interistituzionali con le università, gli enti locali e gli altri soggetti pubblici e privati interessati.
Concludendo
• l’Orientamento deve partire dal 1° Ciclo.
• l’Orientamento va inteso quale prassi didattica
• l’Orientamento va vissuto come azione di sistema integrato, che vede coinvolti Università, Regioni, UU.SS.RR., EE.LL., Uffici per l’Impiego

Creazione 30/01/2006

La conoscenza

La CONOSCENZA
da Edgar MORIN

Le sfide che caratterizzano la nostra epoca sono importanti, vitali. Lo stato dei saperi ereditato non è all’altezza del compito. La posta in gioco è caratterizzata dai nuovi problemi posti alla convivenza umana da un’interdipendenza planetaria irreversibile fra le economie, le politiche, le religioni, le conoscenze di tutte le società umane. Affinché tali sfide siano affrontabili è indispensabile una riforma dell’insegnamento e dell’educazione attraverso ogni settore formativo. La riforma dovrà vertere in particolare sull’organizzazione dei saperi, ormai disgiunti e frazionati, inadeguati ad affrontare problemi che richiedono approcci multidisciplinare. Occorre sviluppare, potenziare il pensiero complesso, come sostiene E. Morin.
Sempre MORIN, riflettendo sui termini e sulla Riforma dei saperi nei Licei di Francia ha in mente un insegnamento educativo che non trasmetta solo puro sapere ma una cultura che aiuti a comprendere la nostra condizione umana e ci aiuti a vivere.
Per Morin l’insegnamento se solo cognitivo è RESTRITTIVO, da solo non può bastare. L’educazione è troppo e niente. Mentre la didattica deve incoraggiare l’autodidattica, favorendo l’autonomia dello spirito.
La globalizzazione del sistema ha reso questo (il sistema) più complesso con l’interdipendenza delle componenti che lo costituiscono. Ciò comporta il limite delle superspecializzazioni che rendono i saprei disgiunti, frazionati, dunque incapaci di “pensare“ e di “cogliere” ciò che è “tessuto insieme” (problemi sempre più polidisciplinari, trasversali, multidisciplinare, trsnazionali, globali, planetari).
Oggi viviamo nella multidimensionalità della planetarietà.
Un’intelligenza incapace di comprendere e considerare il contesto e il complesso planetario rende incoscienti ed irresponsabili. Gli sviluppi delle scienze con le specializzazioni hanno portato cecità ed ignoranza. Ovvero il pensiero che taglia, che isola, permette sì agli specialisti, agli esperti, risultati eccellenti nei loro settori e di cooperare efficacemente in settori non complessi di conoscenza, specialmente in quelli che concernono il funzionamento di macchine artificiali; ma la logica a cui il pensiero obbedisce estende all’intera società e alle relazioni umane i vincoli e i meccanismi inumani della macchina artificiale. La visione deterministica, meccanicistica, quantitativa, formalista, ignora, occulta, dissolve tutto ciò che è soggettivo, affettivo, libero e creatore.
Occorre perciò usare la, servirsi della conoscenza pertinente (E. Morin), ossia di quella intelligenza capace di contestualizzare e globalizzare. Solo così la conoscenza progredisce, e non attraverso l’astrazione, la sofisticazione, la formalizzazione.
L’esempio viene dall’economia, scienza avanzata matematicamente, ma arretrata umanamente.
Lo scienziato Hayek (fisico) l’aveva sostenuto: “Nessuno che sia solo economista può essere un grande economista” … “Un economista, solo economista, diventa nocivo e può costituire un vero pericolo”.
Attualmente dietro la sfida del globale e del complesso si cela un’altra sfida: la sfida dell’espansione incontrollata del sapere.
L’accrescimento ininterrotto delle conoscenze edifica una gigantesca Torre di Babele, rumorosa di linguaggi discordanti. La torre ci domina poiché noi non siamo in grado di dominare i nostri saperi.
Eliot si chiedeva: “Dov’è la conoscenza che perdiamo nell’informazione?” La conoscenza è tale solo in quanto organizzazione (Dewey - Piaget), solo in quanto messa in relazione e in contesto delle informazioni. Queste ultime costituiscono, a loro volta, frammenti di saperi dispersi.
Sempre più la gigantesca proliferazione di conoscenza sfugge al controllo umano. Non solo. Nell’insieme tali conoscenze non riescono a coniugarsi per nutrire un pensiero che possa considerare la condizione umana in seno alla vita, sulla terra, nel mondo e che possa affrontare le grandi sfide del nostro tempo. Non riusciamo ad integrare le conoscenze per indirizzare le nostre esistenze.
Ancora Eliot si chiede: “Dov’è la saggezza che perdiamo nella conoscenza?” Nel Titolo Generale i Proverbi di Salomone recitano: “Gli stolti disprezzano l’istruzione e la sapienza”.
Un limite della cultura attuale è costituito dalla separatezza, dallo iato esistente fra la cultura umanistica, considerata generica, di ornamento, di lusso estetico, e la cultura scientifica, che compie straordinarie scoperte, formula geniali teorie, ma non ancora formula una riflessione sul destino umano, sul divenire della scienza stessa. Oggi esiste una terza cultura, quella delle Scienze Sociali capace di costituire il ponte fra le altre due e di coniugarle.
L’uomo del post-moderno è chiamato a grandi sfide soprattutto con lo sviluppo delle attività economiche, politiche, sociali, con lo sviluppo del sistema neuro-cerebrale artificiale, ovvero informatico, che è entrato in simbiosi con tutte le nostre attività quotidiane.
Ne consegue che l’informazione, attualmente, è la materia prima che la conoscenza deve padroneggiare ed integrare. Ma la conoscenza deve essere costantemente rivisitata dal pensiero. Il pensiero, oggi più che mai, è il capitale più prezioso per l’individuo e per la società. Nella civiltà della complessità se non si ha la percezione del globale, non si dà neppure senso di responsabilità alla dimensione di solidarietà. Così viene meno anche la democrazia. Infatti inizia ad essere percepito in modo chiaro ed inconfutabile un crescente deficit democratico dovuto all’appropriazione da parte di esperti, specialisti, tecnici, di un numero crescente di problemi vitali.
Il sapere è divenuto sempre più esoterico (ovvero accessibile solo a specialisti) e anonimo (quantitativo e formalizzato).
Più la politica diventa tecnica, più la democrazia diminuisce. Più aumenta il processo di sviluppo tecnico-scientifico cieco, che sfugge alla volontà degli stessi scienziati, più regredisce la democrazia. Occorre, dunque, recuperare una democrazia cognitiva. Come Edith Cresson sostiene in “Libro Bianco”, viviamo nell’epoca del “navigare a vista”, dell’incertezza. Il XX sec. ha contribuito ad individuare la conoscenza dei limiti della conoscenza e dunque della scienza. Per imparare ad affrontare l’incertezza occorre far convergere più insegnamenti, mobilitare più scienze e discipline. La condizione umana è segnata da due grandi incertezze: l’incertezza cognitiva e l’incertezza storica. Tre sono i principi d’incertezza nella conoscenza.
INCERTEZZA COGNITIVA 1. Il primo è cerebrale, ovvero la conoscenza non è mai un riflesso del reale, ma sempre traduzione e ricostruzione, cioè comporta rischi d’errore; 2. il secondo è fisico: la conoscenza dei fatti è sempre debitrice dell’interpretazione; 3. il terzo è epistemologico: deriva dalla crisi dei fondamenti di certezza nella filosofia (a partire da Nitzsche) e poi della scienza (a partire da Bachelard e Popper), conoscere e pensare non è arrivare ad una verità assolutamente certa, è dialogare con l’incertezza. Tutto ciò che conosciamo “hic et nunc” è passibile di superamenti.
INCERTEZZA STORICA L’incertezza storica è legata al carattere intrinsecamente caotico della storia umana, la cui avventura iniziata più di diecimila anni fa è stata segnata da creazioni favolose e da distruzioni irrimediabili. Non resta niente delle grandi civiltà del passato, dei grandi imperi, neppure di quello romano. Sorprendenti regressioni di civiltà e di economie hanno fatto seguito a temporanei progressi. Il nostro avvenire non è teleguidato dal progresso storico. Questa è la grande rivelazione cui si è giunti alla fine del XX sec.. Il crollo del progresso garantito, la crisi del futuro, i fallimenti della previsione futurologia, gli innumerevoli scacchi della previsione economica hanno introdotto ovunque il tarlo dell’incertezza. Tutti gli eventi del secolo scorso, dalla prima guerra mondiale alla resistenza di mosca e di Stalingrado erano stati previsti. Imprevisti invece sono stati dal 1989 la caduta del muro di Berlino, il collasso dell’impero sovietico e la guerra di Jugoslavia. Oggi nessuno può prevedere il domani. La conoscenza storica ci deve servire non solo a riconoscere i caratteri nello stesso tempo determinati e aleatori del destino umano, ma anche ad aprirci all’incertezza del futuro. Occorre prepararsi all’incertezza, sforzarsi di pensare bene, rendersi capaci di elaborare ed usare strategie, fare, infine, con tutta coscienza delle nostre scommesse.
Il PENSARE BENE
Sforzarsi di PENSARE BENE significa praticare un pensiero che cerchi senza sosta di contestualizzare e globalizzare le informazioni e le conoscenze, che senza sosta si applichi a lottare contro l’errore e la menzogna a se stesso; ma significa anche essere coscienti dell’ecologia dell’azione.
Per ecologia dell’azione si intende ogni azione che, una volta intrapresa, entra in un gioco di interazioni e retroazioni, in seno all’ambiente in cui si effettua, che può distoglierla dai suoi fini e anche sfociare in un risultato contrario a quello previsto. Es.: nel 1935-36 una spinta rivoluzionaria in Spagna ha dato luogo ad un golpe reazionario etc…
La STRATEGIA
Le conseguenze ultime dell’azione sono imprevedibili. Importante nell’azione è la strategia che, come il programma, si stabilisce in vista di un obiettivo, ma che, differentemente dal programma, che ha bisogno di condizioni esterne stabili, riunisce le informazioni, le verifica, modifica le sue azioni in funzione di informazioni raccolte e dei casi strada facendo.
Fino ad oggi tutto il nostro insegnamento ha investito sul programma, mentre la vita ci richiede strategie e, se possibile, anche arte e seridipità*.
La SCOMMESSA
La strategia porta con sé la consapevolezza dell’incertezza che dovrà affrontare e perciò comporta una scommessa. Questa dovrà essere fatta con coscienza piena, altrimenti è una rovina.
La scommessa è l’integrazione dell’incertezza nella fede e nella speranza. Kant sosteneva che “i lumi dipendono dall’educazione e l’educazione dai lumi”
Daumal a sua volta affermava “so tutto ma non comprendo nulla”.
Il secondo e terzo principio kantiano tratti dal “Discorso sul metodo” comportano il concetto di separazione e riduzione di qualsiasi oggetto di conoscenza per meglio conoscerlo.
Galilei sosteneva che i fenomeni devono essere descritti solo attraverso quantità misurabili. Ma né l’esistente, né il soggetto che conosce, possono essere matematizzati o formalizzati.
Heidegger combatte “l’essenza divoratrice del calcolo” che, a suo avviso, “frantuma gli esseri”.
Nella conoscenza scientifica del più recente passato ha regnato il principio della separazione e quello della riduzione, come se la conoscenza del tutto fosse la conoscenza additiva dei suoi elementi. Oggi, come indica Pascal, si tende ad ammettere sempre di più che la conoscenza del tutto dipende dalla conoscenza delle parti, così come la conoscenza delle parti dipende dalla conoscenza del tutto. C’è dunque bisogno di un pensiero complesso, piuttosto che di un pensiero riduttivo e/o disgiuntivo. Complesso deriva da complexus, ovvero ciò che è tessuto insieme.
La riforma del pensiero corrente affonda le sue radici nella cultura umanistica, nella letteratura, nella filosofia e si sta delineando anche nelle scienze. Essa nasce dalle due rivoluzioni scientifiche del XX sec..
La prima rivoluzione è quella della fisica quantistica che ha causato (comportato) la fine, il crollo dell’universo laplaciano, del dogma deterministico, il collasso di ogni idea di unità semplice che sia alla base dell’universo, l’introduzione dell’incertezza nella conoscenza scientifica.
La seconda, che si realizza con la costituzione di grandi riaccorpamenti scientifici, comporta la presa in considerazione degli insiemi organizzati, dei sistemi e la fine della teoria riduzionistica del XIX sec.. Si delinea così una rinascita delle entità globali, come il cosmo, la natura, l’uomo, che erano state “affettate come salami, disintegrate” (E. Morin), mentre comportavano al loro interno una “complessità insostenibile” per il pensiero disgiuntivo.
Le impostazioni del pensiero che ci hanno preceduto sono ancora evidenti, ma è pur vero che già si sono formati i principi di intelligibilità del complesso a partire dalla cibernetica, dalla teoria dei
sistemi, dalla teoria dell’informazione e si è elaborata una concezione dell’autorganizzazione atta a concepire l’autonomia, cosa impossibile per la scienza classica.
La razionalità e la scientificità hanno cominciato ad essere ridefinite e complessificate a partire dai lavori di Bachelard, Popper, Kuhn, Hulton, Lakatos, Feyerabend. I legami fra le due culture, scientifica ed umanistica, hanno iniziato a rafforzarsi. Pensatori, scienziati, hanno occupato il posto vuoto lasciato da una filosofia ripiegata su se stessa che ha smesso di riflettere sulle conoscenze offerte dalle scienze. Essi sono J. Monod, F. Jacob, Ilya Prigogine, Henry Atlan, Hubert Reeves, Michel Cassé, Basarab Nicolescu, Jean Marc Levy-Leblond. Grazie a loro sta emergendo una (loro) cultura generale, più ricca di quella antica ed atta a trattare i problemi fondamentali dell’umanità contemporanea.
Durante il XIX sec., mentre la scienza ignorava l’individuale, il singolare, il concreto, lo storico, vi era una letteratura, soprattutto il romanzo, quello di Balzac, di Dostoevskij e di Proust, che rivelava la complessità umana. La letteratura si sforzava di raccontare, mostrare, rivelare la complessità umana celata sotto semplici apparenze; la scienza, le scienze del tempo, dimostravano di dissolvere la realtà, la complessità delle apparenze per rivelarne le semplicità nascoste. Ma ancor prima del XIX sec. tutti i capolavori della letteratura sono stati capolavori della complessità. Si pensi alla rivelazione della condizione umana nella singolarità di un individuo (Montagne), alla contaminazione del reale con l’immaginario (Don Chisciotte di Cervantes); al gioco delle passioni umane (Shakespeare). Nella letteratura di sempre noi riscontriamo un insegnamento cognitivo attraverso la metafora, la quale viene celebrata sia da Morin che da Gardner. Lo stesso Cartesio affermava che: “Ci si potrà sorprendere che i pensieri profondi si trovino negli scritti dei poeti e non in quelli dei filosofi. La ragione è che i poeti si servono dell’entusiasmo e sfruttano la forza dell’immagine” (Cartesio, Cogitationes privatae). Ma ancor meglio esprime Antoine de Espery nel “Il piccolo principe”: “Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.
Non a caso gli antichi greci facevano risiedere l’intelligenza nel cuore.
Oggi la scienza sta andando oltre i suoi confini. Vi sono studi sulla mete e sul cervello finalizzati ad individuare se sono entità distinte: la mente, così sembra, sopravviverebbe al cervello non più funzionante.
Spiegare e comprendere sono processi differenti. Spiegare è considerare il proprio oggetto di conoscenza soltanto come oggetto, impiegando tutti i mezzi di spiegazione oggettivi che determinano le forme, la qualità, la quantità, la deterministica degli oggetti. Ma se tale spiegazione è necessaria alla comprensione intellettuale e obiettiva, è insufficiente per la comprensione umana. C’è una conoscenza che è comprensiva e che si fonda sulla comunicazione, sull’empatia e persino sulla simpatia inter-soggettiva. Così io comprendo le lacrime, il sorriso, le risa, la paura se mi immedesimo, se mi identifico, se mi proietto nel soggetto che prova questi sentimenti. Non andrò dunque a misurare la salinità delle sue lacrime, ma mi identificherò in lui, rievocando situazioni, episodi (ricordi) che mi possono avvicinare alla sua esperienza dolorosa o gioiosa.
La comprensione, sempre inter-soggettiva, richiede apertura e soggettività.
La riforma di pensiero deve incidere sulla riforma dell’insegnamento. Il mondo tecnico-scientifico concepisce la letteratura, la cultura umanistica come ornamento o lusso estetico, mentre essa favorisce quello che Simon definiva il “problem solving”, ossia l’intelligenza generale che la mente umana applica a casi particolari. La riforma di pensiero consentirebbe il pieno impiego dell’intelligenza per rispondere alle sfide correnti e permetterebbe il legame fra le due culture finora disgiunte ed antagoniste. Si tratta di una riforma non programmatica, ma paradigmatica, che concerne la nostra attitudine ad organizzare la conoscenza.
La riforma di pensiero, abbiamo già affermato, deve avere come esito la riforma dell’insegnamento e viceversa. Il rapporto fra essi è lo stesso che vi è fra società e scuola, ovvero è un rapporto circolare, ricorsivo: la scuola produce la società che, a sua volta, produce la scuola e viceversa (Kant: “i lumi dipendono dall’educazione e l’educazione dai lumi”)
Come intervenire dunque in tale rapporto e superare la contraddizione sita in esso? Intervenendo in uno dei due soggetti. Solo così si assisterà ad una modificazione. La riforma inizialmente sarà marginale e periferica. L’iniziativa partirà da una minoranza di persone, all’inizio incompresa e perseguitata. Ma poi ci sarà la disseminazione delle idee, che per diffondersi diverranno forza efficace.
Allora si porrà impellente la domanda posta da Karl Marx in una delle sue tesi su Feuerbach “Chi educherà gli educatori?” Saranno pochi coloro che, animati dalla fede nella necessità di riformare il pensiero, avvieranno la rigenerazione dell’insegnamento. Saranno coloro che hanno già in sé il senso della loro missione (mission).
Freud sosteneva che ci sono tre funzioni impossibili per definizione: educare, governare, psicanalizzare.
Morin sostiene che queste sono molto più che funzioni o professioni. Infatti il carattere funzionale dell’insegnamento riduce l’insegnante a semplice impiegato, mentre il carattere professionale porta a ridurre l’insegnante ad esperto. L’insegnamento, invece, deve andare oltre la funzione, oltre la specializzazione, oltre la professione. Deve ridiventare compito di salute pubblica: missione! Una missione di trasmissione. La trasmissione richiede certamente competenza, ma richiede anche, oltre ad una tecnica, un’arte. Nessun manuale potrà mai insegnare ad insegnare, occorre ciò che Platone chiamava “eros”, che è allo stesso tempo amore, piacere, desiderio. Piacere di trasmettere amore per la conoscenza e amore per gli allievi. L’eros permette di tener a bada il piacere legato al potere, a vantaggio del piacere legato al dono. Solo così si potrà suscitare il piacere e l’amore dell’allievo e dello studente. Là dove non c’è amore, non ci sono che problemi di carriera, di retribuzione, di noia per l’insegnamento. La missione presuppone anche la fede; in questo caso la fede nella cultura e nella mente umana.
I tratti essenziali della missione dell’insegnante possono essere così riassunti:
 stimolare una cultura che consenta di distinguere, contestualizzare, globalizzare, affrontare problemi multidimensionali, globali e fondamentali, planetari;
 preparare le menti a rispondere alle crescenti sfide poste alla conoscenza umana dalla complessità dei problemi;
 favorire un’intelligenza strategica e la scommessa per un mondo migliore;
 far conoscere la storia incerta, aleatoria dell’universo, della vita, dell’uomo;
 educare alla comprensione umana fra vicini e lontani;
 insegnare l’affiliazione (all’Italia, all’Europa, alla sua storia, alla sua cultura, alla cittadinanza repubblicana;
 insegnare la cittadinanza terrestre, insegnando l’umanità nella sua unità antropologica e nelle sue diversità individuali e culturali, così come nella sua comunità di destino caratteristico dell’era planetaria, in cui tutti gli uomini sono sottoposti a confronto con gli stessi problemi vitali e mortali.
L’organizzazione disciplinare, istituita nel XIX sec., in particolare con la formazione delle Università moderne, si è poi sviluppata nel XX sec. con lo sviluppo della ricerca scientifica. La disciplina non ha solo a che fare con la conoscenza e con la riflessione interna su se stessa, ma anche con una conoscenza esterna. L’istituzione della disciplina comporta il rischio dell’iper-specializzazione del ricercatore e della “codificazione” dell’oggetto studiato. Mentre l’apertura, l’extradisciplinare, il multidisciplinare è necessario più che mai in un’epoca quale la nostra.

*seridipità = arte di trasformare dettagli apparentemente insignificanti in indizi che consentono di ricostruire la storia

Creazione 6/02/2006

La lettura delle immagini

Il bambino piccolo non legge le fiabe. Qualcuno le legge per lui ed egli impara ad ascoltarle.
Il bambino, inizialmente, riesce a leggere solo le immagini. E le memorizza così bene, assieme a tutte le parole della narrazione, che, prima ancora che l’adulto lettore si accinga a voltare pagina per proseguire la lettura della fiaba o favola, è in grado di continuare il racconto ripetendo perfettamente le parole esposte.
Ciò accade anche di fronte agli spot pubblicitari della televisione.
Ma, prima di entrare nel tema, vorrei soffermarmi sulla molteplicità dei linguaggi di cui l’uomo si avvale.
Alcuni ritengono la parola (parlata/scritta) il linguaggio per eccellenza e gli altri linguaggi
(visivo/musicale) metalinguaggi. Altri invece, come Wagner, pensano che sia la musica la forma d’arte più elevata ed universale. Altri ancora, come Bruce Chatwin, vedono nella pittura la forma di comunicazione più alta ed artistica. Teophile Gautier in “Capitan Fracassa” afferma che la scrittura sia inferiore alla pittura poiché lo scrittore non può mostrare e rappresentare gli oggetti se non uno dopo l’altro, mentre davanti ad un quadro basta uno sguardo solo ad abbracciare tutta l’opera (apprendimento lineare della scrittura-libro; apprendimento modulare dell’immagine che è globale).
Senza voler entrare nello specifico, presupponiamo la complementarità dei linguaggi . Essi, dalla nascita alla vecchiaia, sollecitano l’individuo in continuazione.
Nei primi mesi di vita la parola, per il bambino, è solo un suono. Solo più tardi essa assumerà significati precisi che svilupperanno e collegheranno i procedimenti logici, divenendo così codice.
Quindi il rapporto del bambino con il libro si sviluppa in più fasi che possiamo sinteticamente rappresentare in:
a) lettura e rapporto con le immagini:
b) lettura di immagini più complesse di cui inizia a cogliere i particolari;
c) riconoscimento delle lettere alfabetiche e lettura-decodificazione delle
parole/codice.
Ma il termine “lettura” va inteso nella sua accezione lata.
Si può “leggere” tutto: uno sguardo, l’espressione di un volto, un paesaggio, una moda, un abbigliamento.
La lettura dell’immagine ha anch’essa un codice, che si impara a leggere da bambini. Per meglio chiarire, occorre sottolineare che l’immagine è condizionata dai contesti socio-culturali.
Honorè de Balzac racconta che nella Francia del XVII secolo presso la corte del Re Sole, presentando un quadro raffigurante il paradiso terrestre, chiesero ai due figli del re, di 4 e 6 anni, di indicare Adamo ed Eva. I prìncipi non seppero rispondere poiché in quella raffigurazione, così dissero, il “primo uomo e la prima donna non erano vestiti”. Dunque non riuscirono a distinguerli poiché i costumi erano adamitici.
Attualmente con gli strumenti di comunicazione sempre più complessi, l’adulto deve acquisire conoscenza e coscienza delle proprie responsabilità nell’aiutare il bambino a discriminare i messaggi e le immagini dei mezzi di comunicazione di massa. Infatti assistiamo giorno dopo giorno ad un’invadente colonizzazione culturale da parte delle grandi aziende internazionali.
Agli inizi degli anni ’90 in un liceo artistico di Milano è stata condotta un’indagine. Gli studenti dovevano portare a scuola un’illustrazione di tre personaggi indimenticabili della loro infanzia: Cappuccetto Rosso, Robinson Crusoe e Biancaneve.
La produzione delle immagini relative ai primi due soggetti fu diversissima, seppure rispondente a perfetti canoni estetici televisivi; mentre quella su Biancaneve fu unanime: si trattava della Biancaneve di Walt Disney. Segno che lo stereotipo disneiano era/è imperante e che si può parlare di colonizzazione culturale da parte della Disney Corporation.
Tutto ciò non può non influire sulla capacità immaginativa e creativa dei giovani, che un tempo era fortemente alimentata attraverso il racconto orale il quale, di volta in volta, apporta/va qualche piccola modificazione, liberando così l’immaginazione dell’ascoltatore.

La valenza pedagogica dell’immagine è tale che essa si riflette anche nei giochi destinati all’infanzia. Ecco dunque che, a fronte della Barbie siliconata e hollywoodiana, venduta in tutto l’Occidente e in cui si identificano milioni di bambine, nel mondo islamico è nata la sua antagonista, ovvero l’antiBarbie. Si tratta di Razanne (Scintillante Modestia), ora sul mercato in versione preghiera, fra alcuni mesi in versione insegnante e medico.
Le due bambole costituiscono il simbolo di due culture profondamente diverse ed antagoniste. La prima, quella occidentale, tesa ad uno sfrenato individualismo e consumismo, avendo smarrito il significato del suo credo evangelico e le sue radici; la seconda, islamica, la quale, seppure con le sue contraddizioni e con il tragico fondamentalismo di alcune frange, concepisce ancora l’esistenza umana come missione, come impegno religioso e sociale.
Un tempo non vi erano i colori nella carta stampata. Pertanto i libri in bianco e in nero erano poco avvincenti agli occhi di un bimbo. Solo a metà del novecento le tecniche tipografiche dell’editoria sono notevolmente migliorate e si è introdotto il colore anche nella stampa dei libri per i bambini/ragazzi.
Oggi i libri dedicati alla prima infanzia sono affascinanti, pieni di colori, di estro, di ingegno e di fantasia. Veri capolavori!
La psicanalisi ha sicuramente avuto un’influenza determinante sull’editoria per l’infanzia. Prima del suo avvento, nonostante la nostra storia sia profondamente permeata di cristianesimo, il bambino era poco considerato. Con la psicanalisi viene riconosciuto individuo, persona, degno fin dal suo concepimento. Ecco dunque da quel momento una produzione editoriale ed artistica di valore, tanto più che le scoperte scientifiche suffragavano le tesi pedagogiche dell’infanzia quale età dall’alto potenziale cognitivo.
I bimbi di oggi sono molto più stimolati e seguiti di un tempo, ma noi adulti non abbiamo ancora preso abbastanza coscienza dell’influenza esercitata dalle immagini sull’accrescimento cognitivo e dell’impatto emotivo che suscita la loro lettura.
La nostra è l’epoca della “follia delle immagini”, come sostiene lo psichiatra Vittorino Andreoli.
Di qui il disordine psichico, il dolore, a volte lacerante, il disagio avvertiti dalle nuove generazioni.
Un tempo l’immagine è stata violentemente combattuta. Due grandi religioni monoteiste, il giudaismo e l’islamismo, ancora oggi rifiutano l’immagine per rappresentare il loro Dio. Il cristianesimo, fatta eccezione degli ortodossi, dei copti e dei protestanti, ha ereditato dal mondo pagano, greco, il culto per l’iconografia. Già Papa Gregorio Magno (550), scrivendo al vescovo di Marsiglia, gli indicava di far uso delle pitture per insegnare ai fedeli i passi biblici.
Ma le immagini con tutta la vaghezza, la complessità e la molteplicità di significati non possono essere lasciate all’interpretazione e all’iniziativa personale. Occorre un mediatore che le filtri. Nel passato il mediatore era il sacerdote. Oggi per l’infanzia la funzione di mediatore responsabile e cosciente dovrebbe svolgerla l’adulto, l’insegnante, l’educatore, in primis il genitore.
L’educazione all’immagine, la lettura delle immagini diventano importantissimi nella prima fascia dell’età evolutiva poiché con esse si pongono le basi alla capacità di discriminare e di differenziare la realtà.
I programmi della scuola elementare hanno incluso un capitolo a parte su questo argomento. Nei successivi passaggi agli altri ordini di scuola esso è stato totalmente abbandonato.
E’ stato preferito lo studio della Storia dell’Arte. Ma studiare Storia dell’Arte non significa certamente che di fronte a un Picasso si riesca ad interpretarne tutta l’espressività, che si riesca a contestualizzarlo nel periodo storico, economico e sociale e nelle correnti artistiche del suo periodo.

Creazione 29/09/2004

Robero DENTI “Lasciamoli leggere” Ed. Bruno Mondadori
Monstserrat SARTO “Voglia di leggere” Ed. PIEMME, Casale Monferrato 1993
Vittorino ANDREOLI “Giovani” Ed. Rizzoli, Milano 1985
Roberto PIUMINI “Il ritratto segreto” in “Lo stralisco” Ed. Einaudi Tascabili, Torino 1995
Il Venerdì di la Repubblica del 29/10/2004

Il piacere della lettura.2

(continua)
Samuel Johnson (1700) sosteneva che l’uomo deve leggere solo ciò che più gli aggrada e che è nelle sue inclinazioni, poiché a nulla giova ciò che non piace.
Victor Hugo nei “Miserabili”, dissertando sulla “cultura” della Signora Thénardier e descrivendola come “una donnaccia satura di romanzi sciocchi”, ebbe a scrivere che “non si leggono impunemente delle sciocchezze”.
Oggi, per i tempi che corrono e per l’influenza che hanno i messaggi subliminali di certi spot e di certa televisione o altri mass media, oso affermare , parafrasando V. Hugo, che non si possono vedere, ascoltare e leggere impunemente certe sciocchezze.

La lettura dell’infanzia è stata da sempre la lettura delle fiabe; fiabe intrise di paura, di magia. Nella più recente ed attuale editoria dell’infanzia chi ha indicato un cambiamento di rotta nella magia è stata la scrittrice inglese J.K. Rowling che con Harry Potter e tutta la sua serie ha affrontato la magia in modo nuovo. Harry Potter è, come molti bimbi delle più antiche fiabe, orfano, solo al mondo, senza famiglia. La sua è una vita in cui si intrecciano paura e magia. Ma questa volta la magia non è esterna al protagonista, il mago è proprio lui, Harry. E non a caso! Infatti la magia sta in ciascuno di noi, poiché infinite sono le potenzialità di ognuno, peraltro né conosciute, né pienamente sfruttate. Se noi crediamo fortemente in qualcosa , siamo in grado di realizzarla, di operare magie. Ovvero in ciascuno di noi vi è quella capacità magica/emotiva di trasmettere ciò che ci interessa.
Tornando alla lettura, per leggere ad alta voce non occorre frequentare un corso di dizione o di recitazione. Basta ricordare le sere in cui i nostri figli stavano poco bene e noi abbiamo letto loro una fiaba. Essi l’hanno gradita. Li abbiamo resi felici; abbiano loro donato un momento di sospensione del tempo, un attimo di magia. I nostri figli non si sono chiesti se la nostra pronuncia fosse giusta o quale scuola di alta recitazione avessimo mai frequentato. Ne sono rimasti semplicemente affascinati. Affascinati dal racconto che prendeva corpo attraverso la nostra voce, le nostre parole.
La lettura va amata. L’amore per essa viene trasmessa per “contagio”, come sostiene Federico Starnone, in “effe” Ed. Feltrinelli. La sua forza sta nella capacità e possibilità di immedesimazione che i lettori hanno. Anche di fronte ad un film ci si immedesima. Ma il film e il libro sono entità diversi. I tempi del film sono veloci, non consentono riflessioni, volano via subito. Una sequenza scalza l’altra. Il libro, invece, è sospensione del tempo; è immedesimazione profonda; è sedimentazione. Se c’è qualcosa che mi colpisce, mi soffermo; impiego più tempo nella lettura. Rifletto.

Il libro vive, esiste, in quanto noi lo leggiamo.

Finora nella scuola, fatta eccezione della scuola dell’infanzia e primaria, si è realizzata una didattica della lettura e non si è perseguito il piacere della lettura, intendendo per piacere: l’amore della lettura. E’ stato imposto un unico testo di narrativa valido per tutti gli alunni di una classe. Ma non a tutti può piacere lo stesso libro. Il libro non può essere un’imposizione, deve essere una libera scelta! E se un libro non piace, può essere restituito. L’importante è che la lettura non diventi indigesta!
Quale lettura e quali libri per i bambini, per i ragazzi?
Sicuramente quella/lli che si confanno maggiormente alla fascia di età evolutiva. E se è vero che si possono leggere le fiabe ai liceali, è pur anche vero che possono essere letti gli antichi classici greci ai bambini delle scuole primarie e/o dell’infanzia.
Tuttavia, secondo alcuni, un libro bellissimo ed importantissimo nel panorama dei capolavori della letteratura mondiale dell’infanzia, un libro peraltro scritto per gli adulti, “Il piccolo principe” di A. de Exaspery, è difficile che sia capito dai bambini della scuola primaria. Forse risulta di difficile comprensione anche per i ragazzi delle scuole medie: troppo pieno di metafore, di simbologie, di passaggi incomprensibili. Così sostengono!
Mentre “Tom Sawyer”, come “Pinocchio”, desta nei ragazzi/bambini la capacità di immedesimazione. Tom, come Pinocchio, come Harry, è senza famiglia e deve superare diverse prove, affrontando molte avventure… La differenza fra i tre capolavori sta nel ritmo narrativo, che nell’opera di Mark Twain è lento, come lento è lo scorrere delle acque del Mississipi, inadeguato ai ritmi sostenuti e veloci dei lettori di oggi. Lento è anche il ritmo narrativo di “Pippi Calzelunghe”, pur essendo questa un’opera della metà del novecento.
Di certo ancora attuale e moderno è il ritmo narrativo incalzante di Pinocchio, pubblicato nel 1883, che sarebbe piaciuto anche al pedagogista Rosseau. In fondo l’”Emilio” di Rosseau è colui che “deve fare le sue esperienze”, che non può mutuare le esperienze dagli adulti.
Il contraltare di Pinocchio, burattino che preferisce il piacere al dovere (come tutti i bambini/adolescenti), è Enrico Bottini, protagonista di “Cuore” di E. De Amicis, che pensa solo ciò che fa piacere ai genitori e al maestro. Insomma Enrico, diversamente da Pinocchio e da Tom è un bambino che non ha un’idea sua. Ancora “La gabbianella e il gatto...” di Sepùlveda è scritto bene, ma è farcito di intenti moralistici, di contro vi è “Il gatto tigrato e la rondinella” di J. Amado che tratta dell’infelice amore fra diversi.
Uno scrittore che ha riscosso da subito grande successo e che ha rotto gli schemi della letteratura per l’infanzia è Roal Dahl, i cui libri di horror e paura, che alcuni anni fa venivano letti nella scuola media, oggi sono scelti dai bambini della primaria. Ciò conferma che le nuove generazioni di lettori hanno anticipato i tempi e i campi di interesse.
Ma perché la paura piace tanto ai piccoli?
La fiaba nasce dai tempi più remoti. Vladimir Propp sostiene che le fiabe risalgano a 20.000 anni fa. Nel mondo greco e latino non abbiamo testimonianza di fiabe. Probabilmente esse sono state importate dai popoli barbari. Infatti appaiono in Europa nel Medioevo.
La prima raccolta di fiabe è italiana, l’affascinante “Lo cunto de li cunti” di V. Basile (1620). Da essa sono tratte tutte le altre fiabe, come testimonia Perrault. Nelle fiabe viene presentato un mondo con incredibili, dure prove da superare, ma sempre a lieto fine. La fiaba, differentemente dalla favola, non ha una morale esplicitata. In essa la donna diviene spesso la protagonista, quando nella realtà occupa un ruolo sociale subalterno e passivo nei confronti dell’uomo.
Veniva raccontata di notte, quando il tempo era sospeso e con esso le convenzioni e le situazioni sociali. Forse “Il femminile nella fiaba” (M.Luise Von Franz) vuole mettere in evidenza “l’assenza del principio femminile proprio dell’archetipo” narrativo della fiaba, mentre il “principio maschile” è scontato. Tranne che nelle corti, a raccontare era proprio la donna, generalmente la più anziana, depositaria delle verità ancestrali tramandate oralmente, detentrice di saggezza.
Le fiabe affondano le loro radici nella notte dei tempi e con esse l’uomo ha voluto svelare il mistero e la magia che permea da sempre l’esistenza dell’umanità e ha inteso narrare la paura di vivere, di confrontarsi con l’ignoto. Dunque le fiabe hanno avuto, un tempo per l’umanità adulta, ed oggi hanno per l’infanzia, il compito di esorcizzare la paura.
Bruno Bettelheim sostiene che la paura vissuta attraverso la narrazione della fiaba risulta catartica per l’infanzia.
La fortuna delle fiabe va ricercata nel medioevo, periodo in cui si diffondono per l’Europa. Il medioevo è stato il tempo del cristianesimo, ma anche il tempo del sacro e del profano, delle superstizioni, della magia. Bisognava esorcizzare la paura dell’incertezza; bisognava rassicurare le folle diseredate che dopo le pene e le sofferenze di questa vita ci sarebbe stato un lieto fine.

Se parliamo di educazione alla lettura, non possiamo tacere sull’educazione all’immagine.
Ora il bambino, quello piccolo di due o tre anni, non legge le fiabe; il bambino ascolta colui che legge per lui.
Il bambino quando legge, legge solo le immagini. Le illustrazioni lo aiutano ad immagazzinare tutto ciò che la fiaba racconta. Quella delle immagini, dunque, è la prima lettura del bimbo, lettura propedeutica a quella della parola scritta.

Ma se la lettura delle immagini è la prima forma di lettura di un bambino, allora diventa importantissima un’attenta educazione alle immagini, che verterà essenzialmente in un’offerta molteplice di immagini, sebbene riferite ad uno stesso soggetto, affinché l’iconografia stereotipata non blocchi l’immaginazione, affinché si aiuti il bimbo ad avere una visione differenziata della realtà, affinché egli impari che alle parole possiamo dare significati diversi.


*Federico STARNONE, in “effe” Ed. Feltrinelli, parla di “contagio”.
Robero DENTI “Lasciamoli leggere” Ed. B. Mondadori
BERNARDINI DE MAURO “Contare e Raccontare” Ed. GLF Laterza
Monstserrat SARTO “Voglia di leggere” Ed. Piemme


Creazione 29/09/2004
Pubblicazione su “Il Monitore” N. 4 - Dicembre 2004

Il piacere della lettura.1

La lettura come piacere

La lettura è importante nell’infanzia, età in cui il bambino va educato all’attesa, quando l’attesa è l’eterno-presente, quando il tempo è il tempo della famiglia, il tempo onirico, il tempo circolare.
Allora il libro per il bambino diventa la materia, il luogo che lo può accogliere, il luogo in cui vive i suoi segreti, il luogo in cui è protetto e in cui nessuno lo può imbrogliare, il luogo in cui può proiettare le sue angosce, le sue paure.
Infatti il rapporto che il bambino vive con il libro è lo stesso rapporto che vive con la madre. Il libro gli consente la costruzione delle strutture cognitive, che confluiranno nell’edificazione dell’IO.
Ma la lettura è ancor più importante per l’adolescenza, quando nella fase della trasformazione biologica ed istintuale riemerge il principio del piacere e la sconfitta del dispiacere, quando il tempo da circolare diventa lineare.
La lettura diventa in quel momento importante poiché il bambino, divenuto ragazzo che cresce, ma che non vuole crescere e che ha paura di crescere, sospende i legami affettivi con la famiglia, con i genitori, che contesta, per costruire una sua NUOVA IDENTITÀ.
Proprio allora, quando il giovane vive un lutto, quando “disprezza” l’infanzia, la famiglia esterna e il corpo, la lettura può aiutarlo a proiettare e a dissolvere le sue turbolente conflittualità.
Ancora una volta la lettura e la MATERIA-LIBRO diventano il luogo che accoglie, che non tradisce, che conosce il segreto del lettore.
La lettura si trasforma in luogo del SILENZIO, capace di spegnere i “comportamenti rumorosi”, causati dall’occupazione dello spazio dei giovani da parte di adulti invasivi ed invadenti.
Così il libro, la lettura diventano il luogo che aiuta l’adolescente a proiettarsi e a riconoscersi per una migliore valorizzazione del Sé, per la costruzione della sua identità.

Il libro è attesa, magia, mistero e in “lui” si rispecchia il mistero e la magia che ogni bambino/giovane porta con sé, in quanto persona.
Il libro, e con esso la lettura, è il luogo, lo spazio intermedio, che separa per unire agli altri.
La lettura, anche quando è ad alta voce, ovvero racconto, è SILENZIO, ovvero ASCOLTO dell’ALTRO.
La lettura è luogo privilegiato all’ascolto; è momento di sospensione del giudizio; è momento cui aggrapparsi al risveglio al mattino.
Riscoprire e valorizzare il libro e il piacere della lettura è urgente in un’epoca, la nostra, in cui il tempo si è dilatato, è uscito dai suoi cardini, è sempre tanto poco; mentre troppe sono le parole, minacciose parole, che colmano il vuoto, il vuoto che ci circonda.
Il libro, così, diventa tempo sospeso, tempo onirico.

Il libro è SOGNO, è AVVENTURA senza rischio, è VIAGGIO con “biglietto di andata e ritorno”.
Attraverso il libro il bambino/ragazzo può tuffarsi in un oceano di emozioni; può librarsi in voli di infinite esplorazioni e conoscenze; può penetrare, scandagliare il mistero dell’animo umano.
In una società profana, circondata dalla follia delle immagini, dal frastuono dei rumori, il libro e la lettura restituiscono valore alla persona. La raccontano, recuperando l’unico vero valore: NOI PERSONA, al di fuori del quale non vi è altro .
Sicuramente tutti sono d’accordo sull’esigenza di recuperare l’infanzia e l’adolescenza al piacere della lettura. Forse diversa sarà la valutazione dei mezzi necessari a raggiungere l’obiettivo. Ma se di “piacere della lettura” vogliamo parlare, non possiamo non contemplare la “libertà di lettura”, che di per sé implica la massima disponibilità di testi/libri e l’assoluta autonomia di scelta. Dunque, una lettura non didattica; ma una lettura espressiva, evocatrice di emozioni, di immaginazione, di empatia.
E’ pur vero che alla base della “libertà di lettura” ci deve essere una solida preparazione tecnico-didattica, ma con ciò non bisogna confondere che ogni attività di lettura debba ricondursi ad una mera funzione didattica.
Il professor Roberto Denti, direttore scientifico della Fondazione “Il Battello a vapore”, ad esempio, aborrisce i testi scolastici, poiché appesantiti da apparati didattici, da note e così via, che , a suo dire, allontanano i giovani dalla lettura, dal libro, facendoli disamorare. Personalmente opererei una distinzione fra la “lettura funzionale alla didattica” e la “lettura piacere”.

Nella mia esperienza di insegnante ho incontrato molti ragazzi che, non essendo allenati alla lettura e per questo “lenti e pigri”, amavano e amano più i brani antologici che i testi di narrativa della “biblioteca” instituita in classe. Ciò perché i primi sono brevi e si possono leggere tutto d’un fiato. Quindi anch’essi, al di là della funzione didattica esperita, svolgono l’importante ruolo di avvicinare e avvincere il ragazzo al piacere della lettura.

Oggi la lettura è un diritto di tutti, almeno nei paesi democratici ed evoluti. Lontano è il tempo in cui era privilegio di pochi. Si ricordi a proposito “Il viaggio di Pulcinella” in “Autobiografia e Dialoghetti” di Monaldo Leopardi, in cui il marchese, padre di Giacomo, riteneva che la causa dello “sconquassamento “del mondo fosse la troppa diffusione delle lettere e quel pizzicore di letteratura che “è entrato ancora nelle ossa dei pescivendoli e degli stallieri.” E lontana è la geografia di quei territori dove i libri sono, oppure sono stati, bruciati.

La lettura nasce con la scrittura. E la scrittura, … dalla cuneiforme sull’argilla, …al geroglifico sul papiro, …all’alfabeto sulle tavole di cera e sulla pergamena, … porta alla carta, al libro. Essa da sempre ha sostituito il racconto. Prima della scrittura tutto era raccontato a voce.
La lettura è nata ad alta voce; è nata per gli altri, non per se stessi. Si ricordi che pochi sapevano leggere. Di qui la sua alta funzione sociale.
Nel Medioevo uno dei passatempi preferiti nelle corti era la lettura dei poemi, come la “Chancon de geste” etc..
E’ quindi giusto che la lettura riacquisti la sua vocazione primaria: raccontare ..”AD ALTA VOCE”…
La lettura ad alta voce non costituisce un obiettivo didattico, ma è un traguardo di crescita; è dono; è offerta di un’intimità.
E’ un DONO che non trova compimento in una restituzione.
La lettura “ad alta voce” è anche un’esperienza estremamente fisica e corporea, poiché fluisce non solo dalla voce ma da tutto il corpo. Corporea è la voce; corporeo è l’orecchio che ascolta.
La lettura ad alta voce va intesa come contatto, comunione, relazione fra anime per partecipare ad uno stesso segreto. Ma, nel contempo, comporta un mettersi in gioco, un margine di rischio personale, in cui tutti sono coinvolti, e perciò in gioco, tanto chi legge, quanto chi ascolta. La lettura, dunque, è anche CORALITA’, ma con percorsi del tutto individuali, poiché personale è la risonanza che le parole lette possono evocare in noi; personali ed individuali sono l’immaginazione, la capacità di immedesimazione e di fantasticare. Personale e individuale è l’empatia che le parole lette suscitano.

Con la lettura noi ci apriamo a pensieri nuovi e a sentimenti nuovi, ci proiettiamo all’esplorazione di spazi che avvolgono il mistero.

La lettura è anima, è dimensione assolutamente interiore.
(continua)
Creazione 1/09/2004
Pubblicato su “Il Monitore” N. 4 - Dicembre 2004

Il Viceré

Papero era un promettente costruttore di pollai. In breve tempo, aiutato da soci ed amici, era divenuto ricco e potente.

I suoi poderi si estendevano per tutto il contado e i suoi affari crescevano di giorno in giorno finché tutti lo chiamarono Zio Papero per ingraziarsi le sue simpatie e la sua benevolenza.
Papero, oltre che i soldi, amava le giovani papere. Ce n’era una molto carina, una ballerina del Pip Pap, che finì per sposare. Il suo nome era Papavera. Aveva soffici piume bionde e deliziosi occhi cerulei. Lo fece proprio innamorare e gli diede dei paperotti.

La famiglia cresceva felice e zio Papero veniva applaudito da tutti. Aveva molti fans e tutto procedeva a suo favore.
Trascorsero alcuni anni e zio Papero non era più costruttore. Lui sì che aveva avuto successo! Ora era un gran papavero, blasonato e rispettato, che sedeva nel Gran Consiglio di Paperopoli. Divenne in breve Viceré.

Anche i suoi soci ed amici erano ben sistemati! Ognuno di loro aveva un incarico importante.
Frattanto nel contado si addensavano nubi oscure. I tempi erano divenuti duri. Si rimpiangevano quelli in cui circolava tanta ricchezza!!!
Vi era stata una grave epidemia che aveva mietuto vittime. Anche i contadini stavano soffrendo. Il raccolto era scarso. Un’ondata di gelo aveva danneggiato le colture.
I paperi non ne potevano più, mentre il Gran Consiglio restava indifferente alle loro istanze.

Accadde che un giorno i paperi del contado organizzassero una manifestazione:
“Qua, qua, qua … Vogliamo condizioni di vita migliori!”. “Qua, qua, qua … Vogliamo tutelare i nostri figli!”. “Qua, qua, qua ….Vogliamo lavorare …”. E sfilarono tutti sotto le finestre del Gran Consiglio di Paperopoli.
I Consiglieri, di tutta risposta, ordinarono ai poliziaperi di disperdere con forza i manifestanti. Fu così che i poliziaperi caricarono contro i paperi del contado. Vi furono contusi, feriti e ci scappò anche il morto.

Il dolore fu grande. Il silenzio piombò sul contado e su Paperopoli. Ma la rabbia covava negli animi e non passò molto tempo prima che i paperi organizzassero una rivolta.
Sfilarono ancora sotto le finestre del Gran Consiglio: “Vogliamo mangiare! Qua, qua, qua …” “Vogliamo vivere! Qua, qua, qua …” “Vogliamo un futuro migliore! Qua, qua, qua …” E ancora una volta i poliziaperi caricarono contro di loro.

Questa volta però i paperi erano pronti e preparati a tutto. Si difesero e resistettero alla carica. Circondarono il Palazzo del Gran Consiglio e lo espugnarono. Chiesero quindi di parlare con il Viceré, quell’ardito papero che un tempo lontano razzolava con loro nel contado.

Questi ricevette una delegazione nell’intento di negoziare la resa: “Dunque a che cosa si deve questa rivolta?” – chiese minaccioso ed arrogante – “Forse che non avete di che vivere? Qua …qua!” Un giovane papero, disperato, rispose: “Le nostre famiglie sono stremate. I nostri figli sono senza pane e senza futuro. Non possiamo più tollerare tutto ciò! Vogliamo vivere! E’ giusto che la vostra sconfinata ricchezza sia ridistribuita, poiché costruita sull’inganno e con le frodi!” Il papero Viceré, infuriato: “Come osi, tu, qua, qua, qua, parlarmi così! …Qua, qua, qua … Guardie, prendetelo e uccidetelo!” Ma era tardi. Il Viceré non esercitava più alcuna autorità. Era ormai spodestato, le sue guardie inermi. Fu invece lui ad essere catturato dai paperi insorti, che, occupato il Palazzo, issarono una nuova bandiera, quella della libertà e della dignità dei paperi.

Libertatem afferunt

mercoledì 4 marzo 2009

La Favola

GENERE LETTERARIO

Usato dagli scrittori nei periodi storici in cui non vi era libertà di pensiero, di parola, di stampa

RACCONTO CON POCHI PERSONAGGI

GENERE LETTERARIO MOLTO ANTICO

L’insegnamento e’ espresso in forma esplicita o all’inizio o alla fine

E’ un racconto breve, un racconto che vuole insegnare una MORALE

E’ un racconto in un’unica vicenda

Nella favola gli animali rappresentano le virtù e i vizi degli uomini

I PERSONAGGI SONO DUNQUE ANIMALI